L’ozio produce sempre pensieri instabili. Lucano, Pharsalia, IV, 704
Noi, che siamo passati attraverso quella guerra, quando nessuno, almeno in Europa, combatteva, anche adesso, quindici anni dopo tutto, dobbiamo essere sempre occupati. Altrimenti… Ah, altrimenti, altrimenti…
Questo mi disse l’anno scorso, a una stazione del metrò milanese, il padre di una mia ex studentessa dei tempi lontani di Maglaj. E continuava a spalancare e a strizzare gli occhi, a girare la testa sollevando e abbassando le grosse sopracciglia scure come se si stupisse alle sue stesse parole. Mi pareva che si fosse tutto trasformato in un grande no, mai senza lavoro, continuamente.
Quel tardo pomeriggio d’autunno (lo dico per abitudine, anche se so bene che il metrò ha solo una stagione – la notte illuminata al neon) il mio ex concittadino mi disse che avrebbe volentieri bevuto un caffè con me, o anche una birretta, ma… Gli dispiaceva, lo aspettavano. Là, e accennò con la mano sopra la testa. Dove dovrebbe essere il mondo che ha mattina, giorno e notte? Là, al suo secondo lavoro. Piastrellista, aggiunse, come se avesse intuito che in me si era risvegliato un briciolo di curiosità. Non avevo fretta anch’io? Sì, stavo correndo alla Stazione centrale. Avevo guardato bene il tabellone elettronico con l’orario dei treni?
Quale?
Quello che non mente mai! Feci un sorrisetto, confuso e, credo, un po’ sciocco. Lui distolse lo sguardo. Stringeva nervosamente una grande cassetta per gli attrezzi di plastica rigida, che mi pareva una valigia. La mia fretta più la sua facevano due frette, ma, in ogni caso, mi pregava di scusare la sua. Mentre ci avvicinavamo un passo alla volta verso le porte del vagone, spintonati dalle spalle dei frettolosi viaggiatori, mi disse anche che sua figlia, che con il marito italiano e due bambini viveva vicino a Cremona, aveva letto un mio libro di racconti. Quello in cui parlo anche dei miei anni di fabbrica. Le dispiaceva, ecco, sia per me sia per lui, suo padre.
Le porte del treno gli si chiusero di colpo davanti al naso.
Non importa, disse, il prossimo arriva fra tre minuti. Ma avevo sentito che cosa aveva detto sua figlia? Sì, avevo sentito. Anche a lui dispiaceva per me… Ma non perché lavoravo in fabbrica. Aprii la bocca per dirgli che già da molto non ero più in fabbrica, che facevo altre cose, e che davvero mi interessava sapere perché gli dispiacesse per me, ma la sua mano si posò sulla mia spalla. Me la strinse con forza e mi chiese se, insomma, avessi capito perché lui, da anni ormai, lavorasse tutto il giorno. Tacevo. Che dovevo dirgli? Qualcosa di consolatorio, banalmente commovente? Un mio amico (che, come dice lui, è stato scagliato dagli sbuffi di vapore della ribollente “pentola bosniaca” dall’altra parte dell’Atlantico) in una lettera lontana mi aveva confidato di avere molto timore e nello stesso tempo molta ripugnanza per la banalità dei riti di conforto, che iniziano e finiscono con l’eco di parole vuote.
Lo sguardo del mio interlocutore non nascondeva la delusione. Forse ho capito, gli dissi, tanto per dire qualcosa, con il desiderio inespresso di prendere le distanze dal problema che quell’uomo con le ruvide mani di muratore mi aveva posto inaspettatamente. Lo stesso uomo che, un attimo dopo, mi disse che si sentiva bene solo quando era stanco morto!
I miei saluti per lui e la mia ex studentessa furono inghiottiti dal rombo del treno sotterraneo in arrivo sull’altro binario. E poi le porte del vagone si chiusero dietro a lui.
Quella sera, nel treno per Udine, cercai di leggere i Saggi di Montaigne, uno dei libri che porto volentieri nei miei viaggi in treno. Ma era inutile, ogni momento mi tornavano in mente le parole che avevo scambiato con quel mio ex concittadino alla stazione del metrò milanese. Anche quello sarebbe stato solo uno dei miei incontri casuali nel corso degli ultimi vent’anni nel Paese del mio asilo, e in alcuni altri Paesi? Mi chiedevo anche perché quegli incontri casuali fossero tanto numerosi e che cosa favorisse il riconoscimento di due visi e di due paia di occhi, dopo che tanti anni avevano lasciato le loro tracce, in noi e su di noi. E ogni traccia era chiara: nulla era e sarebbe stato come prima. E non solo perché ci eravamo lasciati alle spalle la giovinezza, e non era importante se un incontro fosse avvenuto a Monaco, Graz, Strasburgo, Subotica, Parigi, Roma, Groeningen, Torino, Zagabria, Trieste e… Chissà dove, nel mondo! O anche durante i rari e, di solito, brevi ritorni in Bosnia, che anch’io definisco volentieri “turistici”. Mi sarebbe accaduta la stessa cosa, secondo il mio amico al di là dell’oceano, se avessi percorso in lungo e in largo l’America Settentrionale. Destini-molecole di una Bosnia dispersa si trovano ovunque, sostiene il mio amico. A lui sembra che essi esistano, ma che anche scompaiano, sotto la superficie brunita di un’enorme campana di vetro. Lui, il mio amico, dice che su questo preferirebbe tacere, ma qualcosa lo spinge, e così deve aggiungere che quella campana nasconde la Storia in Movimento, nella quale operano le superiori forze del potere e della volontà di arricchirsi. A quelle forze dà fastidio la luce, sostiene. È per questo che il vetro di quella campana è oscurato. Lui ritiene che ogni racconto a proposito delle strade e dei destini umani rappresenti un piccolo graffio fatto con l’unghia su quel vetro. In modo che qualcosa almeno si veda, si senta e, possibilmente, si capisca; quella storia, dei destini-molecole.
The scattered Bosnia1. Che è rimasta solo uno dei fatti alla fine del Secolo breve, e potrebbe, pensa quel mio amico, diventare almeno un monito. (No, lui non mi ha mai spiegato per chi, in realtà, the scattered Bosnia dovrebbe essere un monito.)
Su questo (e altro) lui rifletteva mentre si trovava per un certo tempo sulle liste dell’ufficio di collocamento, in attesa. Gli pareva allora che le giornate fossero interminabili e lui, in esse, si sentiva un altro uomo. I am waiting, and I don’t know what I am waiting for; but why have I suddenly started to think and feel?2 Ah, quanto si stupiva, nelle sue lettere, perché tali pensieri non gli fossero venuti in mente prima, mentre si ammazzava letteralmente di lavoro. Naturalmente, quella domanda la rivolgeva anche a me.
The scattered Bosnia? Che all’estero vive in mille e un modo. Inafferrabile allo sguardo di un paio di occhi, inesprimibile sia con la lingua sia con il silenzio di un singolo individuo? Come il problema del tempo davanti al quale ammutolì anche un filosofo, in seguito santo: sapeva che cosa fosse il tempo finché qualcuno non glielo chiedeva. Il tempo, concepibile forse solo con il cuore, alla stessa stregua di the scattered Bosnia? Il cuore, che farebbe meglio a non tentare neppure di rispondere alla domanda posta da una vecchietta al mio amico di oltre oceano, tanto tempo fa, a Lubiana, mentre lui era in fuga dalla Bosnia? La famosa domanda – ma che cosa ci è mai successo? Domanda dalla quale, come un rivoletto di sangue, nasce un’altra – perché viviamo all’estero?
Tornavo a Montaigne, ma mi pareva che ogni paragrafo dei suoi saggi iniziasse con le parole: Un incontro casuale. Che sarebbe rimasto solo uno dei tanti incontri nel corso dell’ultima ventina di anni in Italia? Che, forse, mi sarebbe stato utile per un intervento a un convegno di etnopsichiatria? Come esempio della problematica delle nuove condizioni lavorative e sociali nelle quali un immigrato può così facilmente trovarsi, e non solo in questo Paese che, nei vecchi libri di viaggio e nelle guide turistiche è definito terra di pittori e scultori, di costruttori e studiosi del libero pensiero, di olive, limoni e arance, ma che ora nel mondo è più noto per uno ricco sfondato che si trova a capo del suo governo.
Un incontro casuale? The scattered Bosnia… Quelle parole si moltiplicavano anche fra le righe del mio Montaigne.
Ricordo, ora più chiaramente, l’epoca in cui il mio interlocutore della stazione di Milano era da alcuni anni… Era un dirigente del servizio di approvvigionamento di prodotti biologici di una ditta di Maglaj, forse addirittura il direttore. (Ma che importanza ha, ora?) Per i fiori di tiglio e di sambuco che raccoglievo con i miei alunni pagava sempre qualche dinaro in più per chilogrammo (così i nostri ragazzi potranno andare in gita scolastica), come per i sacchi di lumache. E amava scherzare: Quante ve ne sono scappate? Erano veloci come fulmini? Non era mai senza cravatta e vestito scuro, come sono qui i funzionari di banca e delle agenzie di assicurazione. E invece in quella stazione di metrò indossava una casacca militare, mimetica. E un berretto blu, pubblicitario. Una ditta di colla per ceramica che comunica urbi et orbi: nessuno incolla come noi! Ma, di che cosa sto parlando? Io, che per quasi dieci anni in Friuli tornavo dal lavoro vestito di una tuta blu da metalmeccanico? Sì, ritiene il mio amico di oltreoceano, è più facile vedere gli altri. E non tener conto del fatto che la storia ci ha fatto indossare certi altri abiti. È vero, è più difficile riflettere perché qualcuno ci compatisca. È molto più difficile chiederci se la storia l’abbiamo compresa, indipendentemente dal fatto se ci ricordiamo o no del nostro vestito di un tempo? Anche su questo taccio. Perché la storia contemporanea mi confonde implacabilmente? Quella stessa in cui può accadere anche che qualcuno ci compatisca. Perché, alla fin fine, è inutile scrivere racconti?
Dal viaggio a Milano tornai tardi. Mia moglie mi aveva lasciato un messaggio: telefonare assolutamente a un certo numero di Padova, senza problemi per l’ora tarda.
E così...
Al posto della comproprietaria di un’agenzia di traduzioni di Padova, nativa di Fiume, con la quale occasionalmente, ma da molto tempo, collaboro, il mattino seguente per la Bosnia, con il signor Filippo e sua moglie Anna, partii io. La data fissata per l’acquisto di terreni agricoli a T***, motivo per il quale l’interprete era stata ingaggiata dalla coppia, era inaspettatamente coincisa con quella di un’operazione urgente e improrogabile – qualcosa sulla pelle, era meglio che non mi spiegasse cosa – per cui lei non era potuta assolutamente partire. La sua voce tremava, impaurita, mentre mi chiedeva se sarei andato al posto suo. Potevo fidarmi di quei clienti, gente che pagava tutto e subito. Partenza, affare, ritorno – tutto in un giorno.
Va bene? Certo, signora, andrò con loro, in Bosnia.
Vennero a prendermi prima dell’alba. Lui, Filippo, un sessantenne non alto, snello, con la testa ovale quasi calva incassata nelle spalle, in un elegante abito scuro; lei, Anna, più alta di lui, con un viso che mostrava le tracce degli anni in modo più evidente che su di lui, con occhi grandi e, mi parve, ansiosi. Il viaggio sulla loro enorme jeep cherokee fu gradevole, fino al, per me consueto, lungo controllo della mia identità alla frontiera slovena-croata. Sì, a causa mia il signor Filippo dovette mettersi v stran, da parte. Battendo nervosamente con le dita sul volante come se fosse una tastiera, mi chiese se la cosa fosse seria e quanto a lungo durasse, mediamente, il controllo dei documenti. Quanto sia seria, risposi, non posso saperlo. Ancora oggi, in questo stesso posto è sufficiente essere anche solo originario della Bosnia, per essere spesso trattato come un potenziale criminale o terrorista. Ma, disse, che cosa significava per loro la mia carta d’identità italiana? La carta è italiana, dissi al signor Filippo, ma il nome e il cognome sono rimasti gli stessi, e anche il paese di nascita. E questo non si cancella, mai. Ah, esclamò lui, è così! E il controllo, durerà a lungo…? Quanto occorrerà, dissi, prima che si ricordino di averci mandato v stran. Ecco che cosa succede, disse la signora Anna con impaziente ironia. Come, che cosa succede? Ma su, Filippo, come che cosa? Non fare il finto tonto, questo è ciò che succede appena ci lasciamo indietro l’Italia e l’Europa! Il suo ora basta suonò come un’imprecazione. Come catapultato da una molla il signor Filippo scese dall’auto. Tornò quasi subito, mi consegnò la carta d’identità e mi comunicò che la madre degli stupidi è sempre incinta. Senza eccezione, era incinta anche lì, su quella frontiera. Ero d’accordo con lui? Sì, signor Filippo. E volevo aggiungere qualcosa? No, signor Filippo. Che senso aveva dire che quell’orribile posto di frontiera assomigliava alla bocca enorme di una balena, fatta di travi e di tubi d’acciaio, dove l’Europa finisce o inizia, fa lo stesso?
E così... Ero seduto dietro, leggevo il mio Montaigne. Il viaggio, devo ammetterlo, fu molto gradevole: i miei datori di lavoro non mi chiedevano quando e perché fossi venuto in Italia, quanti immigrati ci fossero a Udine e dintorni, se pensassi di tornare nel mio Paese, se la pianura Pannonica fosse un deserto, se nella mia nuova città i cinesi avessero comprato tutti i locali pubblici e i negozi, se in Bosnia si mangiassero specialità a base di carne di orso bruno, quando e come avessi imparato la loro lingua, se in Friuli avessimo varie bande di romeni, albanesi, tunisini o ex jugoslavi… Per un po’ la signora Anna sonnecchiò, poi, chiaramente preoccupata, fece diverse telefonate. Non so a chi, non so neppure di che cosa parlasse, ma la sua voce tradiva spesso l’ansia. E sospirò, diverse volte, addolorata. Sì, solo una volta disse a suo marito che quella mattina Luli stava un po’ meglio della sera prima. Lui rispose che era una bellissima notizia, così lei avrebbe potuto finalmente tranquillizzarsi. Tutto sarebbe andato per il meglio. Luli se la sarebbe cavata, felice e contenta, accanto a sua moglie.
Luli?
Una figlia, una nipote? Un’amica, forse una vicina? Quando, senza alcun problema, attraversammo la frontiera croato-bosniaca, la signora Anna si rinfrescò il trucco; a lungo e con cura, con uno specchietto in una mano e l’occorrente per il trucco nell’altra. Il paesaggio boschivo, con le sue infinite sfumature autunnali, non interessava né lui né lei. Lui era contento perché tutto sommato non eravamo in ritardo; io perché, a una curva alla quale l’automobile rallentò, in una canaletta accanto alla strada vidi quattro palle spinose, una grande tre piccole. Mamma riccio con tre piccoli grufolavano con i loro musetti fra le foglie di quercia cadute. Cercavano ghiande?
Ricci, foglie, ghiande sul terreno – teneri segnali dell’autunno.
A uno slargo il signor Filippo si fermò. Per un bisognino, disse, e se voleva, ecco, poteva scendere anche lei. Ma per amor del cielo, Filippo! Potevo anch’io, naturalmente. No, grazie, signor Filippo. Ma, dissi, era meglio che non si addentrasse nel bosco. Certo, disse lui, sapeva bene quante mine fossero rimaste in Bosnia dopo la guerra. Era incredibile il numero di mine che noi, in quella guerra, avevamo seminato. Sì, dissi, è anche incredibile quante ne fossero state prodotte. Pure nel Paese dove ho trovato rifugio. Il signor Filippo tacque, taceva anche la signora Anna. E io con loro, naturalmente. Mentre scendeva dall’auto gli sfuggì un beh-beh, seguito da un commento: il mondo, fin dai suoi inizi, va avanti anche con l’aiuto delle guerre.
Il mio amico di oltreoceano, durante il suo periodo di ozio, si chiedeva se nei nostri figli e nei figli dei loro figli ci fosse la speranza di qualcosa di diverso, di più umano rispetto al mondo e alla vita che viviamo noi. Mi disse che una volta aveva sentito una voce, chissà quale e di chi, che sghignazzava dicendogli che i nostri figli e i figli dei loro figli sarebbero cresciuti anche loro. Dio, che cosa avrà voluto dire?
Poi, nel retrovisore, apparvero la schiena e la nuca del signor Filippo, sopra il quale si alzava il fumo di una sigaretta. Quando si mise di nuovo al volante ci chiese se avessimo visto il capriolo. Che esemplare?! No, non l’avevamo visto. Lui pensava che la passione per la caccia fosse come un prurito che non passa mai. A dispetto degli anni. Il suo indice si muoveva come per conto suo, come desiderasse essere appoggiato a un grilletto, con la pupilla a un mirino.
Bum!
Tacemmo. La signora Anna teneva il telefono in mano come una cosa morta, lui giocherellava ogni tanto con le dita sul volante, come fosse un sassofono. No, né lui né lei mi chiesero se le molte case incendiate ai lati della strada fossero serbe o croate. Era evidente che conoscevano bene quei paesaggi, con le case dai muri anneriti e le finestre dalle quali sporgevano i rami autunnali.
Non era per sé che desideravano comprare quel terreno in Bosnia, interruppe il silenzio il signor Filippo, ma per la figlia e il genero. Lui, il genero, possedeva vigneti non solo in Veneto, nella zona di Soave, ma anche in Umbria e in Toscana. E non solo là; quell’uomo giovane e ambizioso, che non aveva pace quando si trattava di affari… ed era capace; senza alcun dubbio – lo disse con orgoglio palese – aveva avuto il fiuto di spingersi verso l’Est Europa. In Romania aveva comprato boschi … Quanti ettari, Anna? Lei si strinse nelle spalle. Non importa, diciamo parecchi. In Ungheria aveva molti terreni – là era già in attivo, la barbabietola da zucchero rendeva bene… In Serbia, da qualche parte verso la Bulgaria, gli erano subito piaciute certe zone collinari adatte alla coltivazione dei frutti di bosco, ora voleva comprare qualcosa di simile in quest’area della Bosnia nordoccidentale, la più vicina all’Italia. Non aveva ancora deciso: frutti di bosco, ciliegie o pere. Non aveva importanza, l’ultima parola l’avrebbero data gli esperti. Loro due, in realtà, avrebbero comprato quei terreni per la figlia e il genero come regalo di nozze. Sì, dalle nozze erano già passati tre anni, però non era colpa loro, ma… Era una storia lunga!
Mentre parlava, stavamo già entrando a T***. Dopo il cartello con il nome del luogo, al viaggiatore non poteva sfuggire quello, enorme, con la fotografia della Torre del beg Tal-dei-tali, il monumento più importante dell’intera zona. Anche se da giovane, con la mia squadra di pallamano, ero stato quasi in ogni città della Bosnia, non avevo mai visto quella cittadina. Senza dubbio T*** aveva acquisito lo status di comune in seguito alle nuove demarcazioni e suddivisioni del dopoguerra fra i popoli fratelli del mio Paese natale. Prima della guerra quello era evidentemente solo un villaggio un po’ più grande. Fra le colline sulle quali è situato scorre un ampio torrente il cui corso serpeggiante e ramificato divide l’intera zona abitata in isolotti e penisolette di grandezza irregolare. Dell’origine rurale della nuova città parlano chiaramente la disposizione delle case sparpagliate e circondate da orti, gli stretti sentieri che per forza di cose sono diventati strade e i nuovi edifici costruiti in stili nei quali, su un fazzoletto di terra, si riconosce almeno metà Europa. Davanti a una di quelle costruzioni un norvegese penserebbe di essere a Trondheim, e forse si girerebbe indietro per vedere il fiume Nidelva e le acque del fiordo in cui sfocia; davanti a un’altra un visitatore della Baviera griderebbe forse sehr gut3: tale e quale come a Ingolstadt! Davanti a un terzo edificio, sono certo, uno spagnolo con più sangue freddo commenterebbe: sì, qui si è trasferito un pezzettino di Spagna, ma no, non siamo a Barcellona! E, in tal modo, si arriverebbe fino all’isola fluviale nella parte più ampia di quel corso d’acqua, sulla quale è stato eretto il nuovissimo motel Na vodi (Sull’acqua), nello stile pseudoantico delle pagode giapponesi. E un’altra cosa sorprendente, per il turista che attraversa la cittadina, sono i nomi internazionali dei caffè e dei ristoranti: Istanbul, Rosa Bianca, The Stonehenge, Bell’Italia, Don Quijote, Crazy Horse… E poi è impossibile non vedere i minareti: minareti così in Bosnia, fino agli aiuti amichevoli di Arabia Saudita, Iran, Kuvait eccetera, non ce n’erano. Naturalmente, la passeggiata di ogni visitatore curioso porterebbe anche alle impalcature appoggiate alla chiesa ortodossa a un capo della cittadina e a quelle della chiesa cattolica all’altro capo. Chi aveva contribuito con aiuti amichevoli? Ma a proposito di chiese, di moschee, o di altro, ripeterebbe forse quel mio amico di oltreoceano, il bosniaco, fedele o infedele, è rimasto guercio. Il mio amico si chiedeva se si trattasse davvero di una sorta di incurabile strabismo: la persona più vicina non si vede, e invece si chiama uno-qualsiasi-laggiù-lontano, pensando che sia un amico. Di fronte a quel suo interrogativo io rimanevo in silenzio, come si tace davanti a un passato imperscrutabile e a ogni manifestazione di impotenza, ma una volta gli scrissi che avevo scoperto il significato dell’orto nella vita. Anche una sola ora al giorno, fra la verdura che cresce, può per un mortale essere significativa. Di questo non mi fece mai parola. Ma un giorno, al ritorno dalla Bosnia dopo il funerale di sua madre, mi telefonò e, loquace come mai era stato prima, mi chiese chi secondo me fosse il vero vincitore della nostra guerra fraterna. E, senza aspettare la mia risposta, disse: l’Assenza-di-gusto. Lo scriveva con la lettera maiuscola, A. È per questo che entrando a T*** vidi le betulle su un dolce declivio come qualcosa di raro e naturale? Le betulle, il colore giallo ramato del loro fogliame, a portata di mano del viaggiatore ma, apparentemente, lontane da tutto, là.
All’appuntamento dal notaio, fissato per le undici, arrivammo con un anticipo di venti minuti e così potemmo andare a bere un caffè. Il centro del nuovo comune ha una piazza non grande, rettangolare, fiancheggiata dall’edificio modesto del municipio con la facciata trapezoidale di vetro e metallo, da boutique, da caffè, dalla posta e, naturalmente, dalle banche, che è facile contare: ce ne sono cinque, una austriaca, una turca, una italiana, una tedesca e una svizzera. Dalle aiuole inserite nella pavimentazione di cemento spuntavano cespugli e alberelli ornamentali ormai spogli; alcune panchine di ferro circondavano un cubo di granito, il monumento ai caduti dell’ultima resa dei conti bosniaci; attorno zampettavano cinque o sei colombi, e sopra, mossa da una leggera brezza, garriva la bandiera statale.
Il signor Filippo e la signora Anna andavano sempre al caffè Bell’Italia. Tutto tappezzato di specchi, tanto che ci vedevamo anche a testa in giù, sul soffitto, ovunque, come se qualcuno ci avesse clonato. La musica diffusa, mi dissero i miei datori di lavoro, non era troppo forte come negli altri locali, e il caffè di Bell’Italia era ottimo. La prima volta quella era stata per loro una sorpresa incredibile. La signora Anna, che continuava a tradire preoccupazione nell’espressione degli occhi, si stupì quando chiesi un espresso. Pensava che avrei ordinato il caffè bosniaco, simile a quello greco e a quello turco.
È così facile e così rapido perdere le abitudini del proprio Paese? Più facile di quanto si pensi, signora Anna. Mi guardò poco convinta.
Il giovane con la camicia bianca, come se avesse capito di cosa si trattava, sorrise.
La signora Anna era convinta che se si fosse trovata su un’isola deserta, come una Robinson in gonnella, non avrebbe avuto dubbi sul suo primo desiderio alla vista dei suoi salvatori. Datemi, signori navigatori, un vero espresso italiano! Tutto il resto poteva aspettare…
Non dovevo offendermi se a nessuno di loro due piaceva il sapore del caffè bosniaco, ma questo era meno importante della loro intenzione di farla finita una buona volta con tutte le cazzate relative all’acquisto di quel terreno agricolo.
Il signor Filippo tossicchiò e poi mi disse che desiderava spiegarmi in breve quale fosse la vera questione: la Bosnia è un paese strano, e ci vivono troppe persone strane. Eravamo venuti fin qui, avevamo fatto centinaia di chilometri, per sentirmi dire questo? Davvero, ogni volta non posso fare a meno di ammirare ogni occidentale che, appena messo piede al di fuori della sua cerchia, in modo per me affascinante comincia subito a trarre conclusioni generali, nelle quali non c’è il minimo spazio per un semplice forse. No, non replicai, ma semplicemente dissi: la ascolto, signor Filippo. Quindi, è un paese strano dove lui non può riscattare un pezzettino di terreno, incuneato come un nido di passero nel bel mezzo dell’ultima parte non ancora acquistata del terreno che lo interessa, tanto da dividerlo in due, e in modo molto malagevole. Infatti viene messo in forse l’accesso all’intero terreno, al quale manca solo quel pezzetto, quella briciola nera sotto l’unghia. Si tratta, in effetti, di due fratelli: uno è normale, e per la sua parte non chiede neppure un prezzo troppo alto, ma l’altro… Ah, quell’altro! Schioccò le dita all’altezza degli occhi, intendendo dire – l’altro fratello non è giusto! Volevo dire una battuta, del genere: la normalità è un fenomeno molto relativo anche nel ventunesimo secolo, ma osservando l’espressione adirata del signor Filippo vi rinunciai. Hm, quel poveraccio! Ordinò un altro caffè, con una grappa. Dopo essersi scolato il bicchierino, cominciò a picchiettarsi la fronte con l’indice e il pollice, incrociati a formare un becco d’oca. È normale un uomo che rifiuta un compenso triplo per un terreno del quale non può né vivere né morire? Poveraccio, beh!
Tacevo. Sì, proprio così, anche se avrei tanto voluto dirgli che sul fatto di sopravvivere o di morire su un pezzo di terra che si è annidato nel posto sbagliato, noi non possiamo saperne di più del suo proprietario. No, signor Filippo, non lo sappiamo perché, semplicemente, noi non siamo quell’uomo che lei, un momento fa, ha più di una volta chiamato poveraccio! Ma tacevo. Un modo di tacere, come una volta si diceva in Bosnia, puttanesco: non fiati neppure, ciò che hai sentito è come se non l’avessi sentito, ciò che hai visto non è ciò che hai visto; piuttosto, hai visto e sentito quello che è meglio per te. E in Occidente la cosa ha una sua elegante definizione: lealtà nei confronti del datore di lavoro. Con la quale si vive e si muore, e che molti insegnano ai figli.
Il signor Filippo gettò uno sguardo a sua moglie che, digitando dei numeri sul suo cellulare, aveva distrattamente ascoltato le sue parole, ne gettò un altro a me e poi ordinò ancora un caffè con mezzo bicchierino di grappa. Mi chiese perché tacessi. La domanda era stata chiara, la doveva ripetere? No, non occorre, signor Filippo. Sono venuto qui per esserle di aiuto. Di aiuto? Con la traduzione, signor Filippo. Va bene, lasciamo stare adesso la traduzione, a me serve anche un altro tipo di aiuto e… Il becco d’oca di accostava e si allontanava dal mio viso. Che aiuto, allora, potevo dargli se non avevo una risposta alla domanda fondamentale: l’altro fratello era normale o no?
Forse, dissi.
Forse? Forse sì o forse no? Pensai che il signor Filippo mi avrebbe battuto sulla fronte con quel suo becco d’oca, ma abbassò il braccio. Perdio, lei… come si chiama? Gli ripetei il mio nome. Che nome difficile, però ora questo non ha importanza, ma… Dovevo dirgli se quell’uomo fosse normale o no. Penso che questo dovrebbe essere di competenza di uno psichiatra, dissi, meravigliandomi della freddezza delle mie parole. Seguì un siparietto: il signor Filippo prima balzò via dal posto in cui eravamo appoggiati al banco, poi si avviò rapidamente alla porta stringendosi la testa fra le mani come se temesse che gli scoppiasse, battè il piede per terra e infine tornò al banco, rosso di rabbia.
Che succede al vecchio? Sussurrò sottovoce il giovanotto in camicia bianca. Niente, risposi.
E guarda la vecchia! Il giovanotto accennò con la testa verso la signora Anna, che stava telefonando a qualcuno. La vecchia non si schioda dal telefonino e non fa altro che piangere per una certa Luli! E il vecchio batte i piedi per terra come se fosse attaccato alla corrente elettrica…
Ora basta!, ci interruppe seccamente, con tono imperioso, la signora Anna, che fino a quel momento, con voce soffocata, a tratti apertamente disperata, aveva ripetuto ossessivamente Luli, Luli, mia Luli. È ora di andare all’appuntamento!
Che succede alla nonnetta? Chi è Luli, capo? Non riuscii a soddisfare la curiosità del giovanotto in camicia bianca.
Ci avviammo in silenzio verso l’ufficio dell’avvocato Hadžić, dove dovevano già essere in nostra attesa anche un notaio e i due fratelli. È incredibile vedere quanta gente c’è per strada, nei bar, dappertutto! Pur con i segni della sua preoccupazione in viso, la signora Anna esprimeva a voce alta il suo stupore per ciò che vedeva. Era così anche prima della guerra? No, dissi brevemente. C’era più lavoro, allora, in quel vostro comunismo? Sì, signora Anna. Quindi, si lavorava di più? A quanto pare era così. Strano che adesso, con la libertà, non ci sia più lavoro. È vero che la crisi è dappertutto, che è mondiale, ma… La libertà è libertà, no? Tacevo.
Suo marito camminava rapidamente davanti a noi. Mi accorsi che si era tolto giubbotto e giacca e si era sciolto la cravatta, non credo solo a causa del caldo sole d’ottobre. Pareva che non intendesse badare alle parole di sua moglie, preoccupata che si prendesse un’infreddatura, così, solo con il gilet. I miei rispetti, signor Filippo! Oh, signora Anna, che onore, come sta? L’avvocato era un uomo ancora giovane, ma già stempiato, con chiari segni di sovrappeso, soprattutto sul bianco collo tozzo e sulle mani paffute. Il notaio, che l’avvocato chiamava signora notaia, di nome Ajša , era una donna snella, in un abito chiaramente su misura, fresca di parrucchiere. Aveva più o meno la mia età, anche se che cercava di nascondere gli anni sotto il trucco e il fard. Nell’ufficio notai solo un altro uomo, basso, con un vestito liso di due taglie troppo grande, con un basco in mano, che si limitò a borbottare qualcosa in segno di saluto. Era uno dei fratelli? Quello che voleva vendere la terra? E l’altro? Il signor Filippo gli porse cordialmente la mano, mettendogli l’altra sulla spalla in modo molto familiare. Come stai, Ahmed? Questo l’aveva evidentemente capito, anche senza il mio aiuto. Bene, gut, sor Filip, disse, scoprendo i denti radi e ingialliti. Seguì poi il chiarimento di un equivoco. La signora notaia non sapeva che il signor Filippo avrebbe portato un interprete, e ne aveva già prenotata una, una ragazza di Bihać. Che rinunciasse, subito. Ništa bosnasko, danas italijanski čovek!4 La moglie gli fece segno con gli occhi: abbiamo pur portato l’interprete, che non si rendesse ridicolo, era meglio se avesse parlato italiano.
Non c’è problema, signor Filippo, ecco, chiamo subito la ragazza, è questione di un minuto: che rimanga a Bihać e stop. L’avvocato telefonò subito. Poi, strofinandosi le mani come se volesse insaponarsele, si affrettò a dire servilmente: E noi, signori, prima un caffè, e poi qualcosina da bere… Dopo, quando avremo concluso l’affare, uno spuntino, una birretta, un po’ di vino e cose del genere… Possiamo farlo qui o anche alla Torre, basta avvisare. Dalla finestra scorsi la Torre del beg Tal-dei-tali: sotto una piantagione di betulle, bianca come un pezzo di gesso ritto in piedi, con il tetto di scandole scure.
No, non era possibile. Niente Torre, disse il signor Filippo, solo l’affare! Quanto dobbiamo aspettare che arrivi tuo fratello Ibro? Ahmed, al quale era toccata una delle due poltroncine con le rotelle, si dondolava di qua e di là, e taceva. Aveva abbassato lo sguardo, e di quando in quando si asciugava la fronte madida di sudore con un fazzoletto sgualcito. Il signor Filippo, con le gambe accavallate, batteva sulla superficie di vetro del tavolo con la punta delle dita. Per aver promesso di venire, sì, Ibro ha promesso, ripeté la signora notaia, rigidamente seduta, lo sguardo fisso su un grosso fascicolo grigio sulla cui etichetta era scritto a nere lettere cubitali Italija. Sì, ha promesso, l’ho sentito anch’io, ripeté l’avvocato. Ma di Ibro, nessuna notizia.
Mentre aspettavamo, a un tratto si fece sentire il signor Filippo, con una voce tagliente come una lama, che interruppe il già lungo silenzio attorno al tavolo. Con quei soldi Ibro potrebbe, Ahmed, comprare, per esempio, un chiosco, per vendere qualcosa. Giornali, sigarette, bibite. Ho visto quel genere di attività, in questa zona, ce ne sono abbastanza… Mentre traducevo, Ahmed annuiva: sì, sì, gut. Poi disse che era vero, che suo fratello Ibro avrebbe potuto comprarsi anche un chiosco. E anche un pezzo di terra migliore di quello che il sor Filip voleva comprare, quel pezzo che tagliava il suo in due. Dillo tu, Ahmed, al nostro italiano, Ibro verrà o no? Ahmed guardò l’avvocato come se lo vedesse per la prima volta, poi chinò la testa. Infine, come rivolgendosi a qualcuno seduto sul pavimento, qualcuno per noi invisibile, Ahmed si mise a parlare. No, ora lo vedeva, era la sua anima a dirglielo, suo fratello non sarebbe venuto. No, anche se l’aveva promesso. Se avesse voluto, sarebbe già arrivato. In realtà anche lui si sentiva in colpa. Quando avevano diviso l’eredità paterna, Ibro si era fissato su quel pezzo nel mezzo. Lui, Ahmed, non voleva litigare, e aveva ceduto, è vero che quello era il lato soleggiato, ma ecco, Ibro era suo fratello, non aveva un altro fratello tranne lui. E quindi… Qui tacque.
E quindi cosa, Ahmed? Non abbiamo litigato, neppure ora litighiamo. È mio fratello. Ma è una testa dura, e una testa dura non ha due orecchie, ma solo una. Quella che ascolta solo se stesso. Forse Ahmed era anche un filosofo, disse il signor Filippo, ma doveva sapere che a lui la filosofia non interessava. Lui era un imprenditore veneto, aveva gli affari nel sangue. Possedeva una fabbrica di prodotti di plastica vicino a Verona, e un’altra in Romania. Credeva nel buon senso, in due più due uguale a quattro, che domani avrebbe dato cinque e sei. E anche dieci o più, Dio volendo. Questo è un super calcolo, signor Filippo, esclamò l’avvocato. Non c’è problema per il cinque e il sei, per quanto mi riguarda! Ahmed lo disse tranquillamente, come se parlasse di qualcosa che non lo interessava più. Lui era pronto a vendere il suo pezzo. Lo disse accennando con la testa verso il fascicolo Italija. Lui voleva vendere il suo, ma tutti dovevano sapere una cosa. Lui con suo fratello non voleva litigare. Amava i figli del fratello come i propri. Queste, disse con impazienza il signor Filippo, sono cose personali. Qui non si tratta di amore, ma di una compravendita. Quand’era così, disse Ahmed, il sor Filip doveva sapere che lui era lì proprio per quello. Lui era lì, e lì erano i documenti, lì presso la signora notaia. Lui la sua firma l’avrebbe messa subito, nero su bianco... Va bene, si affrettò a ribattere il signor Filippo, va bene, va bene! Ma che cosa c’era nella testa di suo fratello? Nella testa di mio fratello? Ahmed tentennò con la testa a destra e a sinistra, mentre la sedia su cui era seduto si spostò con uno scricchiolio. Lui, mio fratello Ibro, pensa che il mondo crollerà se vende quel pezzo di eredità paterna. Sul quale lui adesso produce patate, cavoli, fagiolini… E cipolle, ah come gli vengono bene le cipolle. Diventano… Ci fece vedere i suoi due pugni uniti. Quello non è un terreno per ortaggi, no-no-no! Non erano solo le parole del signor Filippo a dircelo, ma anche la sua mano, stretta in un pugno. Si sarebbe saputo presto per che cosa era davvero adatta quella terra, c’erano gli esperti del ramo, che avrebbero detto…
E ieri ha promesso, no? La voce dell’avvocato suonò un po’ impaziente, con una sfumatura di sconforto, così come, mi parve, il suo sguardo, che andò a cadere sul suo orologio da polso. Sussurrò alla signora notaia che sperava di finire entro l’una, poi lo aspettavano altri… Il tempo è denaro, non è così? Lei annuì.
Qualcuno di voi ha una spiegazione, una qualsiasi spiegazione logica per quello che ha in testa quell’uomo? Una spiegazione logica – ripeté il signor Filippo un’altra volta, e dietro a lui si fece sentire, dopo un lungo silenzio, la voce della signora Anna, che disse che c’era ben poca logica in quel Paese, ma che non dovevo tradurre quelle parole. Neppure suo marito volle che traducessi ciò che disse della politica di quel Paese, che avrebbe dovuto sostenere i proprietari intenzionati a sfruttare la terra come Dio comanda. Lui era sempre più dell’opinione che tutto ciò esprimesse una generale ingratitudine umana. Suo genero aveva intenzione di impiegare almeno cinque lavoratori stabili, per non contare gli stagionali, per la vendemmia.
Seguì un altro silenzio che durò a lungo. Attraverso gli spessi vetri delle finestre dello studio dell’avvocato giungeva il brusio delle voci degli avventori dei caffè attratti dal sole mattutino. A un tratto suonò il cellulare della signora Anna. Lei diede un’esclamazione di dolore. Luli è sul tavolo operatorio! Aveva gli occhi pieni di lacrime. Suo marito la pregò di calmarsi. Lei si risedette, come spezzata.
Un altro silenzio. Chi è Luli, compaesano? Mi strinsi nelle spalle al sussurro dell’avvocato, non so chi sia Luli. E Ibro non si vedeva. Qualcuno di voi ha una spiegazione per il mancato arrivo dell’altro fratello, eh? Almeno questo, se non altro. Nello studio si fece udire come un sibilo il sospiro lungo e sofferente del signor Filippo. Non abbiamo nessuna risposta, disse la signora notaia.
Forse io una ce l’ho, le dissi. In un racconto che una volta leggevamo tutti, a scuola. Che racconto? L’angolo di Ibrahimbeg, dissi. Lei rifletté. Qualcosa le diceva che quella storia lei l’aveva letta, ma non se la ricordava. Che cosa stavamo dicendo? Niente di particolare, signor Filippo, parlavamo giusto per passare il tempo, mentre aspettiamo. No, non era soddisfatto della mia risposta. Aveva l’espressione di un uomo che, quando paga qualcuno, da lui esige di sapere tutto. Si alzò e si accostò alla finestra. Io ricordai alla signora notaia quel racconto, di uno scrittore forse già dimenticato, di Mostar, che aveva occhi grandi e un’anima ancor più grande per comprendere i suoi contemporanei, indipendentemente dalla loro fede, in questo paese, oggi anche ufficialmente diviso. In breve: di tutto l’antico splendore della sua famiglia, a Ibrahimbeg, che nel racconto fa lo spazzino, è rimasto solo un angolo, una casa d’angolo; vecchia, cadente, ma sua, che ai concittadini ricorda che i suoi antenati un tempo erano veri e propri beg. Un giorno arriva un ingegnere con degli operai per abbattere l’angolo di Ibrahimbeg, seguito da quell’unico impoverito discendente di una nobile casata. No, Ibrahimbeg non vuole spostarsi quando travi e solai iniziano a crollare.
Tremendo! Ma… No, lei quel racconto non lo ricordava. L’avvocato disse che la storia era tremenda e incomprensibile. Ah, la nostra mentalità, che manteniamo dai tempi più remoti! Quella casa doveva essere monetizzata, a qualunque prezzo. E quel beg impoverito doveva adattarsi ai tempi nuovi. Ahmed sommessamente si fece sentire. Lui non era un uomo di grandi letture, disse come per scusarsi di avere parlato. Ma se quell’ex beg avesse monetizzato la casa, a lui pareva che il racconto non sarebbe neppure esistito. Così com’era. Fosse o no tremendo, e incomprensibile. Ma, disse rigirando fra le dita una sigaretta non accesa, quella storia non era la risposta. Noi non conoscevamo suo fratello. Per niente! Non era quello che pensavamo. Suo fratello non sarebbe rimasto neppure un minuto senza terra. Lui sulla terra lavorava d’estate, nella canicola più torrida, e d’inverno, quando il gelo tappezza di brina le finestre, la neve ricopre i campi e il ghiaccio avvolge i rami nudi. Aveva fatto alcune serre calde, come ortolano aveva successo. La cosa funzionava, anche se riusciva a malapena a mantenersi. Ma… Si fermò, si mise il berretto in testa.
C’è un altro problema, disse. Suo fratello doveva lavorare. Doveva coricarsi stanco morto, altrimenti… Altrimenti, che sarebbe successo? La curiosità dell’avvocato non fece perdere il filo ad Ahmed. Lui fiutò la sua sigaretta, e continuò. In effetti, non era così prima della guerra, ma… Ci assicurò che sulla guerra, in quell’ufficio, lui non intendeva dire una parola. Qui… Con la mano tracciò un cerchio, invisibile, sopra la sua testa. Che ci doveva dire? Solo che era stato un caos generale. Qui un fratello aggrediva un fratello. Ripeté, fratello contro fratello. Bosgnacco contro bosgnacco, e per che cosa, per chi?
No, neppure alla signora Anna piaceva che parlassimo in una lingua per loro incomprensibile. Ancor meno che non avessi tradotto neppure una parola. Ma con ancor più fastidio ricevette la mia spiegazione che avevamo parlato un po’, di cose che non avevano nulla a che fare con la loro pratica, solo per alleviare la lunga attesa.
Filippo, richiamò il marito. Compriamo il pezzo che è in vendita e torniamo indietro! Chissà che cosa è successo a Luli, sono preoccupata, Filippo! Nessuno risponde più alle mie chiamate! E qui la cosa va per le lunghe, come se il tempo non esistesse.
L’altro fratello non venne. Ahmed firmò tutte le pagine dell’atto in silenzio, in stampatello, con caratteri tutti bitorzoluti. Certo, fece una pausa. A un tratto la penna stilografica gli tremò in mano (non so se il pennino fosse d’oro o un’imitazione, ma l’avvocato poi la ripose con cura in un cassetto che chiuse addirittura a chiave.) Dopo aver firmato, mormorò ancora una volta che la sua firma non significava che lui volesse litigare con suo fratello. Il signor Filippo pagò tutto in assegni, la terra, la parcella del notaio e il servizio di mediatore dell’avvocato. Tirò poi fuori dieci euro, per la ragazza di Bihać. Lui non era un tirchio, disse, voleva solo essere sicuro della chiarezza della traduzione. E che non rimanesse neppure un’ombra di dubbio, fra noi tutti. Naturale, signor Filippo, naturale! Gli occhi dell’avvocato luccicarono di soddisfazione.
No, non accettammo l’invito dell’avvocato di un piccolo spuntino, una birretta, un po’ di vino. Non andammo neanche alla Torre, neppure per un semplice pranzo. I miei datori di lavoro avevano fretta. Il silenzio nell’auto fu interrotto solo dal signor Filippo, che mi chiese perché non leggessi più quel libro. Non c’è abbastanza luce, dissi. Comunque, gli proposi di leggergli solo alcune frasi, scelte da me. Aprii il libro, a caso. Noi siamo costituiti da piccoli pezzi, uniti assieme in modo così informe e vario, che ogni pezzetto a ogni istante agisce per conto suo. Stranamente, la mia traduzione italiana della traduzione in serbo-croato del libro di Montaigne mi venne fuori subito, con facilità. Hum, ci sono altre frasi così, signor… come-si-chiama? Sì. Ma fra noi e noi stessi c’è tanta differenza quanta ce n’è fra noi e gli altri. Questa è complicata, disse il signor Filippo. Forse non avevo tradotto bene? Penso di sì, e conclusi quel pensiero di Montaigne con uno di Seneca ricavato da una delle Lettere: Magnam rem puta unum hominem agere.5 No, lui non aveva studiato latino. Che gliela traducessi. Hum, essere sempre lo stesso uomo, eh? Disse, e sbadigliò.
Ci fermammo solo brevemente, nell’area di sosta Lom, in Slovenia. Un panino e un caffè, attorno al tavolo silenzio. Anche il cellulare della signora Anna taceva assieme a noi.
Poi dalle caliginose nubi serali cominciò a cadere una pioggia autunnale. Mi ricordai che in una giornata del genere, nell’autunno del novantaquattro, avevo scritto per un disertore proveniente dalla Bosnia una domanda di asilo in Italia. Continuava a ripetere a ogni istante che la politica è una puttana. E che quel decotto di bacche di rosa selvatica, che avevo raccolto ai bordi dei campi verso Campoformido, non l’aveva bevuto da più di due anni. No, non sperava di berlo in Italia, mai più. E ripeteva, spesso, che avrebbe voluto una sola cosa. Di ottenere un lavoro, molto semplice. Per esempio che qualcuno gli mettesse in mano un grande piccone e che lo portasse su un campo, sul quale era tracciata una linea senza fine; lui avrebbe iniziato a scavare un canale, senza il desiderio di finire, mai.
Cederà quell’Ibro, vedrete, cederà! Detto questo, all’uscita dalla toilette, il signor Filippo si controllò la cerniera dei pantaloni.
P. S. Un mese dopo quel viaggio, mi telefonò la padovana originaria di Fiume. Ero soddisfatto del pagamento per i miei servizi? Certo, signora. Potevo andare nuovamente in Bosnia, con i suoi clienti? Prima che riuscissi a rispondere, lei si affrettò a dirmi una cosa importante. Se avessi potuto andare, dovevo tenere a mente una cosa. Che cosa, signora? Di non chiedere di Luli, la barboncina della signora Anna. Era stata seppellita in un cimitero per cani e gatti, vicino a Verona. E di non chiedere assolutamente niente neppure del genero, proprio niente. Aveva lasciato la loro figlia. Per una giovanissima ungherese. Insomma, dovevo comportarmi in modo professionale. Volevano tagliar fuori il genero dalla proprietà di quel terreno in Bosnia. Era il caso che mi vestissi bene, aveva sentito che là faceva freddo. E che stava nevicando, molto.
Zugliano, 21-25 dicembre 2010
1 La Bosnia dispersa.
2 Io aspetto, e non so che cosa aspetto; ma perché, a un tratto, ho cominciato a pensare e a sentire?
3 Completamente.
4 Niente bosniaco, oggi uomo italiano!
5 Pensai che fosse una grande cosa essere sempre lo stesso uomo.