DI UN POETICO ALTROVE: IL CASO STANIŠIĆ NELL’OTTICA DI MIA LECOMTE
Ne supra crepidam sutor iudicaret. Apelle di Coo, pittore Greco antico
Finora non avevo mai reagito, né per iscritto né a voce, alle numerose recensioni, saggi e tesi di laurea sulle mie opere. Perché questi testi fossero tanto numerosi, è una domanda che mi lasciavo alle spalle di fianco a un forse, in risposta al dubbio se meritassi tanta attenzione. No, finora non ho reagito a nessuno di questi testi, semplicemente – e in nessuno di questi ho trovato secondi fini o, più precisamente, cattivi intenti.
Ci sono due ragioni per le quali scrivo questo commento ai brani dello studio di Mia Lecomte Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona (1960 – 2016)1 , nei quali si parla di me nell’ambito della cosiddetta letteratura migrante e delle mie non-poesie. Primo: sottolineo ai futuri studiosi delle mie composizioni letterarie l’arbitrarietà e i giudizi superficiali dell’autrice sopracitata. Secondo: perché suppongo che nelle recensioni di quest’opera non saranno presenti considerazioni su tali arbitrarietà, sulle stime superficiali e non raramente sui consigli all’autore. Non ce ne saranno perché l’esperienza mi dice che per il mondo universitario che si occupa di questi temi vale il proverbio »un corvo non cava gli occhi a un altro corvo«. Siccome questo studio è la rielaborazione in italiano della tesi di dottorato Voix poétiques des Italiens d’ailleurs. La poésie transnationale italophone (1960 – 2016), svolta sotto la direzione di Jean-Charles Vegliante e discussa presso l’università Sorbona – Parigi III, mi chiedo se in occasione della discussione della tesi di Mia Lecomte ci sia stata una reazione riguardo lo status particolare che mi viene assegnato in questo studio. Oppure, per essere più chiaro, la Sorbona è ancora ciò che era una volta?
Perché particolare?
Questa in realtà è una domanda per nulla intelligente, perché può risponderesolo uno scemo che a volte (ma sempre nel momento sbagliato) dimentica che, sia nella cosiddetta vita culturale che quindi anche nella vita letteraria, ha affermato abbastanza la sua posizione indipendente riguardo qualunque argomento - ed ecco l’etichetta di quello che va controcorrente. Già, questa non è una domanda intelligente, anche perché chiunque abbia un minimo di esperienza non solo di scrittori ma anche di teorici e studiosi di letteratura nella loro edizione in carne ed ossa, saprà che ciò che li separa dai comuni mortali (spesso più umani e di superiore levatura morale rispetto a molti ecclesiastici della parola scritta) è solo un sottile filo di talento.
Ma purtroppo, nel mio caso, vale anche per l’autrice di questo studio i cui già menzionati estratti mi hanno ricordato un episodio che ho vissuto anni fa a Monfalcone, in quanto mediatore linguistico. Dopo aver annunciato agli operatori dei servizi sociali del Comune quali conseguenze può avere il loro per nulla delicato intervento in una famiglia ex jugoslava, questa previsione, che purtroppo si avverò, fu interpretata come un’offesa rispetto al loro impegno. Dunque, il mediatore si è immischiato in affari clericali nei quali, lo sappiamo, c’è spazio per i laici solo in quanto oggetti di studio. A fine anno, questo stesso servizioha dato la sua valutazione delle mie attività, di cui, per non annoiare il lettore, cito solo una frase: »In qualche occasione il mediatore dell’area balcanica ha fatto sentire ‘invasa’ l’area professionale di alcuni operatori dei servizi sociali«.
Più tardi, ho sentito che la mia risposta ha disorientato i suddetti operatori sociali: »Non c’è giudizio senza che sia valutato anche il giudicatore…«
Ma il mio giudizio sui giudizi di Mia Lecomte, nei brani che mi ha dedicato, è che sono generalmente scolastici. Per riassumere: si tratta del metodo teologico medievale secondo il quale la filosofia non si deve intendere come libera indagine ma come studio nel servizio della teologia. Naturalmente gli studenti erano ubbidienti, all’epoca. L’autore di questo commento non ha letto ubbidientementei brani dell’articolo Barbara Serdakowski e Božidar Stanišić: agli estremi del plurilinguismo. L’»osservatorio« romeno di Mihai Mircea Butcovan (pagg. 198 – 214) e ha contrassegnato in corsivo determinati punti: »Al grado opposto (1) della moltiplicazione linguistica di Barbara Serdakowski, affannosamente tesa a una lingua originaria prima di ogni scrittura, al »cuore silenzioso« della poesia, c’è la produzione poetica nella lingua madre del bosniaco Božidar Stanišić. Quest’ultimo, dopo un periodo iniziale in cui ha acconsentito a farsi annoverare tra i poeti della migrazione italofona (2) – spinto a suo dire, come altri, dalla ricerca di una possibilità di pubblicazione (3) – si è arroccato su posizioni polemicamente estreme (4), difendendo la scelta di rimanere fedele alla lingua »in estinzione« del proprio paese »scomparso«, e più in generale il diritto di ogni autore di essere semplicemente coerente alla propria personale poetica, al di là di qualunque classificazione critica: »Però già da tempo non dubito più se sono uno scrittore migrante. Semplicemente non mi sento uno scrittore migrante. Scrittore forse, ma migrante no […]. Io, scrivendo e pubblicando anche in italiano, posso considerarmi uno scrittore italiano e appartenere alla letteratura italiana contemporanea? Sulla nostra appartenenza, di noi che scriviamo altrove, si sa, spesso decidono altri. Più di uno, in tutti questi lunghi anni, si è interessato su chi sono e come mi sento: scrittore ex-jugoslavo, serbo, bosniaco, bosniaco-erzegovese o italiano. Da tempo rispondo che mi sento davvero uno scrittore di nessuno. E aggiungo che scrivo sia in un mio yiddish (e il mio vissuto della lingua serbocroata, ormai ufficialmente inesistente), che in italiano.
La polemica di Stanišić è rivolta specificamente alla qualifica di »migrante«, che come tale rimanda a una letteratura limitativa della produzione italofona (5) quale si è venuta da principio affermando in ambito critico e editoriale, di cui si è diffusamente parlato nel primo capitolo: Siamo i primi? [...] No, non siamo i primi«, continua Stanišić, aggiungendo il solito elenco di »esiliati illustri« (6) – da Ovidio, a Nabokov, a Rushdie... – tutti sulla stessa »verticale della Storia«, che con i loro destini, le loro opere, esulano dai canoni delle rispettive letterature nazionali; per i quali scrivere altrove diventa garanzia di prolifica disappartenenza. E qui non possiamo che rilevare l’ambiguità della posizione che accomuna alcuni di questi autori, a cui si è già fatto cenno, che oscullano all’interno delle categorie letterarie proposte alla ricerca della propria collocazione: se infatti da un lato Stanišić desidera essere considerato a tutti gli effeti come uno »scrittore italiano contemporaneo«, dall’altro si dice »scrittore di nessuno«, rivendica l’inclusione nella categoria degli autori transnazionali che esulano da qualunque catalogazione nazionalistica (7): scrittori altrove, esuli di tutti i tempi ma vittime soprattutto delle dislocazioni necessitate della Storia contemporanea, che stanno sempre più rivoluzionando i parametri delle classificazioni letterarie«.
Primo: non è bello enfatizzare le cosiddette caratteristiche positive sul conto di altri autori, almeno non in questo modo, direi, provinciale al quale può darsi manchi il giudizio che le poetesse sono migliori dei poeti. Naturalmente, non ho e non avrò nulla contro le suddette poetesse.
Secondo: Mia Lecomte sa bene che, già nel lontano 1996, mi rivolse un’offerta di pubblicazione di alcune mie non poesie (già edite). La verità è che, per la mia consapevolezza della realtà cosiddetta dei migranti, più tardi letteratura italofona, ero entusiasta, tutto finché non hanno iniziato ad emergere fenomeni di cui ho già scritto in Non siamo i primi (in Letteratura e migrazione in Italia / Ecrire ailleurs. Littérature et migration en Italie, a cura di Anna Frabetti – Laura Toppan, »Re-CHErches«, X 2013), e nella prefazione del mio libro di racconti Piccolo, rosso (2012). Su questo non avrei speso più nemmeno una parola: cosa potrei aggiungere? Meglio che non aggiunga niente, perché migralett e italofonett sono sempre presenti sulla mia strada, dove mi trovo anche contro la mia volontà.
Terzo: ora sembra che Lecomte non sappia che non sono mai stato a caccia di editori. Dunque, non morivo dalla voglia che, per qualunque prezzo, si pubblicassero i miei racconti, editi o inediti, non-poesie, saggi... Lei sa altrettanto bene (anch’io ho una sorta di archivio dove ci sono anche le sue lettere) che circa vent’anni fa ho rifiutato la sua offerta che un qualche editore pubblicasse le mie poesie, con la dichiarazione che sono scritte direttamente in italiano. Ecco, non ero e non sono nemmeno ora una persona per tutte le stagioni dell’anno. Scrivendo di me, un tempo, Lecomte ha parlato, diciamo, della mia onestà intellettuale. Ma questo ora non è importante. Passiamo a...
Quarto: nel suddetto studio sono visto anche come un estremista. Va bene, meglio questo che l’ennesima pecora del gregge. E così, arroccato, sono servito in maniera estrema all’autrice di questo studio per affermare il suo dissenso contro la classficazione nel migralett e italofonolett. La capisco, pensate all’oncologo che rimarrebbe senza lavoro nel caso in cui venisse scoperta una cura per il cancro o all’operatore sociale se ci fosse meno povertà nelle nostre città.
Siamo già arrivati al quinto punto, tragicomico perché, secondo me, si tratti della più semplice arbitrarietà, non priva di tendenze che l’inseriscono nel contesto di un’informazione fasulla. Una digressione – benché innominato, credo di essere generalmente ammassato anche tra gli autori già menzionati in questa citazione: »Gli scrittori – anche i meno migranti e allofoni, che pure per anni si sono tutti prestati all’inclusione in un genere accademicamente etichettabile per ritagliarsi uno spazio e guadagnarsi l’ambita pubblicazione delle proprie opere – non possono che ribellarsi all’inquadramento in categorie critiche che non entrino nel merito ‘letterario’ dei loro testi. E chiedono semplicemente di essere definiti ‘scrittori italiani’, una scelta anch’essa estrema e sbilanciata, che finisce per far perdere di vista tutte le caratteristiche innovative della letteratura che rappresentano proprio in quanto migranti, per sminuire l’importanza del fenomeno mondiale di cui sono portatori. Se devono essere considerati semplicemente scrittori italiani, allora il dibattito dev’essere aperto – e lo è stato – su cosa significhi ancora il canone in un contesto culturale contaminato e globale«. Questa salsa mentale non è adatta al mio piatto balcanico, meglio che sia versata sulla pasta dei »veri esperti«. Ai quali auguro: Buon appetito! Ma che tra loro non manchino quelli che dimenticano che nella scoperta della patria letteraria, o delle patrie letterarie, di ogni autore dovrebbero partiredal testo delle loro opere, e non dagli elementi biografici e, naturalmente, dagli inevitabili nome e cognome, così spesso impronunciabili– questo lo sanno anche gli uccelli sulla grondaia. I quali, se sapessero leggere, chiederebbero agli esperti: »Dove sta il problema?« Ma è già il turno del punto...
Sesto: quando i baroni citano i nomi degli esiliati illustri, è normale che sia baronesco; quando questo riguarda altre persone, allora è il solito elenco. Il diavolo mi tenta, mi chiedo di nuovo se quei professori della Sorbona avessero degli appunti su questo.
Settimo: il citato in corsivo merita un saggio sulla banalità della riflessione. Ma mi fermerò solo all’espressione facile di Mia Lecomte sul mio desiderio di essere uno scrittore italiano. Questo desiderio è solo una superficiale spiegazione della questione, per me del tutto logica mentre per i sacerdoti della migralett e della italofonolett è peccatoria e pericolosa. Il peccato mi è chiaro, ma il pericolo che vedo non è proprio un nonnulla. Semplicemente, nel mare dell’elusione di ogni logica del dubbio e sull’italianità dell’opera, prima di tutti gli autori della cosiddetta seconda generazione (per conto del cui conformismo nell’accettazione di questa classificazione ho espresso critica e non solo nei miei già citati saggi), domina la »ragione« dell’origine dei loro genitori e non la ragione dell’approccio al testo.
Ma non è tutto.
Mia Lecomte continua: »Più che sulla definizione di ‘migrante’, dunque, la polemica dovrebbe più coerentemente essere rivolta alla rigidità dei canoni delle letterature nazionali (8), a quello che ancora possono significare in un contesto di transiti culturali e linguistici sempre crescenti. La conseguenza di tale contradditorietà per il poeta bosniaco e linguista – va a toccare proprio l’aspetto più importante dell’identificazione in un determinato sistema letterario (9) – e vorrebbe apparentemente rovesciare l’approccio più diffuso all’italofonia, sovvertendone la prospettiva (10):
»Perché siamo così pochi, noi che abbiamo mantenuto l’abitudine e la volontà di scrivere nella lingua madre? So che non sono molti che, come me, hanno avuto l’occasione veramente straordinaria di avere vicino un traduttore come lo è Alice Parmeggiani, a volte Ljiljana Avirović, non solo traduttrici ma pure ottime conoscitrici della letteratura degli slavi del sud. Oltre a ciò sarebbe interessante chiedersi perché anche autori stranieri provenienti, ad esempio, da zone francofone, slavofone, ispanofone o germanofone, hanno deciso di scrivere solo in italiano?«
Viene dunque rivendicato il diritto di rimanere fedeli alla propria lingua madre, mentre l’ambito delle letterature transnazionali a cui viene fatto riferimento, in merito ai processi linguistici che concernono tali letterature esclude di per sé qualunque irrigidimento prospettico, l’utilizzo di qualsivoglia categoria assoluta. Abbiamo visto finora quanto vario e personale sia il rapporto di un autore con le lingue coinvolte nei processi di transito, da cui non si esclude la necessità più o meno impellente di raggiungere un pubblico, l’unica alla quale Stanišić sembri fare riferimento. Sono dinamiche che spesso, proprio per la loro complessità, per la molteplicità dei processi psicologici e culturali coinvolti, sfuggono proprio ai principali interessati (11), gli stessi autori transnazionali che a volte, anche legittimamente, ambiscono solo a trovare una collocazione ‘certificata’ all’interno di questa o quella letteratura nazionale. Limitandosi a lamentare l’esclusione dai circuiti nobili della nazionale, si amareggiano tanto da compromettere la qualità della propria produzione narrativa e poetica, non pienamente consapevoli dell’avanguardia che incarnano e rappresentano, ne banalizzano la portata ripiegandosi polemicamente su strumenti superati e parametri identificativi riduttivi (12).
Nel caso dello stesso Stanišić (13), ad esempio, il fatto di avere incontrato sin dal suo arrivo in Italia una traduttrice (14) come Alice Parmeggiani, oltretutto esperta della letteratura degli slavi del sud, come riconosce lui stesso è stata sicuramente una ragione sufficiente a spingerlo a conservare la propria lingua poetica senza avventurarsi in sperimentazioni compositive o traduttive che avrebbero rischiato di comprometterne la letterarietà. Perché le poesie del poeta bosniaco, da lui definite come ‘odi di forma impura’, o più in generale ‘non-poesie’ – con un’ostentata modestia volta in realtà a sottolineare la ricercatezza di tale ‘impurità’ e una ‘poeticità’».
Vale la pena discutere di tutto ciò che ho evidenziato dall’ottavo al quattordicesimo punto insultando così l’intelligenza dei lettori indipendenti? Vale la pena che io provi a captare dove Lecomte è più banale e meno comica nella sua teologia, e adesso anche nel suo dottorato? Che io dica, ma non a lei – »il caso Stanišić« forse esiste, ma esistono anche i sacerdoti della letteratura migrante? Che io le dica che degli scrittori che non hanno smesso di scrivere anche con la fuga dalle loro – quindi non sapendo se saranno mai pubblicate loro opere, lei davvero non sa abbastanza e anzi niente? Ma qui siamo già nel giardino di quel filosofo cinese che passeggiando coi suoi allievi pondera se i pesci nello stagno sono felici oppure no. Alla fine del dibattito, da parte dell’allievo che insisteva che i pesci sono felici, riceve la risposta che nemmeno lui, benché maestro, può saperlo. »Perché tu non sei me…« Semplicemente, nel »caso Stanišić«, Mia Lecomte è entrata negli »spazi« in cui si è permessa la condanna dei miei orientamenti, non ha nemmeno fatto cenno di volersi togliere gli scarponi del suo dottorato passeggiando per la mia opera, ma ancor meno per la mia pluriennale lontananza dalla letteratura del mio paese, più complessa di quanto si può immaginare.
No, non si è fermata solo a ciò su cui si è già dilungata, ma si è spinta fino alla sua verità sul mio essere compromesso, sul piano più importante, quindi letterario, che io preferisco lasciare ai lettori, mentre ai futuri ricercatori fornisco un solo messaggio: siate cauti in occasione delle consultazioni di questo studio in cui sono un ambiguo rovesciatore di un ordine delle cose. Chissà, forse a loro non sfuggirà la domanda del perché solo io ho ricevuto questo status in Di un poetico altrove? Solo perché la studiosa, che enfatizza i propri vent’anni di »appassionato« e solitario impegno nell’ambito di quella che viene ora preferibilmente definita »poesia transnazionale italofona«, l’urgenza del distacco ha comportato una presa di distanza »letterale«, fisica, che permettesse di ripercorrere, da una nuova angolazione, lo sviluppo di ricerche fatte a stretto contatto con i poeti (pag. 10), ha dimostrato com’è anche ultracrepidaria nei suoi giudizi e, naturalmente, consigli? Chissà, forse un lettore indipendente in quest’occasione determinerà anche la domanda sul conformismo e la libertà di pensiero? Ma così, detto per inciso, si chiederà anche di chi è il termine imigritudine in Di un poetico altrove (senza glosse che rispondono: Božidar Stanišić)?
Ma, alla fin fine, perché fare così tante domande? Suppongo che sarebbe stato meglio se avessi espresso questo commento solo con la riflessione sul pensiero di quel pittore greco dell’antichità: »Che il ciabattino non giudichi più in su della scarpa«.
Traduzione dal serbo-croato di Veronica Bonelli1 Mia Lecomte, Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona (1960 – 2016), Franco Cesati Editore, Firenze 2018
Opomba urednika: Na željo avtorja objavljamo besedilo v italijanščini, saj ga je objavil v okviru nekega bloga, ki pa je nepričakovano izginil. Obljavljamo pa ga tudi zaradi tega, ker je okrog 2,5 odstotkov obiskov revije tudi iz Italije od dveh milijonov v času od maja 2017. A objavljamo ga v podporo avtorja članka, ki v Italiji doživlja tudi silenzio zaradi svojih stališč in zaradi izključnosti drugih.
Ne supra crepidam sutor iudicaret. Apelle di Coo, pittore Greco antico
Finora non avevo mai reagito, né per iscritto né a voce, alle numerose recensioni, saggi e tesi di laurea sulle mie opere. Perché questi testi fossero tanto numerosi, è una domanda che mi lasciavo alle spalle di fianco a un forse, in risposta al dubbio se meritassi tanta attenzione. No, finora non ho reagito a nessuno di questi testi, semplicemente – e in nessuno di questi ho trovato secondi fini o, più precisamente, cattivi intenti.
Ci sono due ragioni per le quali scrivo questo commento ai brani dello studio di Mia Lecomte Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona (1960 – 2016)1 , nei quali si parla di me nell’ambito della cosiddetta letteratura migrante e delle mie non-poesie. Primo: sottolineo ai futuri studiosi delle mie composizioni letterarie l’arbitrarietà e i giudizi superficiali dell’autrice sopracitata. Secondo: perché suppongo che nelle recensioni di quest’opera non saranno presenti considerazioni su tali arbitrarietà, sulle stime superficiali e non raramente sui consigli all’autore. Non ce ne saranno perché l’esperienza mi dice che per il mondo universitario che si occupa di questi temi vale il proverbio »un corvo non cava gli occhi a un altro corvo«. Siccome questo studio è la rielaborazione in italiano della tesi di dottorato Voix poétiques des Italiens d’ailleurs. La poésie transnationale italophone (1960 – 2016), svolta sotto la direzione di Jean-Charles Vegliante e discussa presso l’università Sorbona – Parigi III, mi chiedo se in occasione della discussione della tesi di Mia Lecomte ci sia stata una reazione riguardo lo status particolare che mi viene assegnato in questo studio. Oppure, per essere più chiaro, la Sorbona è ancora ciò che era una volta?
Perché particolare?
Questa in realtà è una domanda per nulla intelligente, perché può risponderesolo uno scemo che a volte (ma sempre nel momento sbagliato) dimentica che, sia nella cosiddetta vita culturale che quindi anche nella vita letteraria, ha affermato abbastanza la sua posizione indipendente riguardo qualunque argomento - ed ecco l’etichetta di quello che va controcorrente. Già, questa non è una domanda intelligente, anche perché chiunque abbia un minimo di esperienza non solo di scrittori ma anche di teorici e studiosi di letteratura nella loro edizione in carne ed ossa, saprà che ciò che li separa dai comuni mortali (spesso più umani e di superiore levatura morale rispetto a molti ecclesiastici della parola scritta) è solo un sottile filo di talento.
Ma purtroppo, nel mio caso, vale anche per l’autrice di questo studio i cui già menzionati estratti mi hanno ricordato un episodio che ho vissuto anni fa a Monfalcone, in quanto mediatore linguistico. Dopo aver annunciato agli operatori dei servizi sociali del Comune quali conseguenze può avere il loro per nulla delicato intervento in una famiglia ex jugoslava, questa previsione, che purtroppo si avverò, fu interpretata come un’offesa rispetto al loro impegno. Dunque, il mediatore si è immischiato in affari clericali nei quali, lo sappiamo, c’è spazio per i laici solo in quanto oggetti di studio. A fine anno, questo stesso servizioha dato la sua valutazione delle mie attività, di cui, per non annoiare il lettore, cito solo una frase: »In qualche occasione il mediatore dell’area balcanica ha fatto sentire ‘invasa’ l’area professionale di alcuni operatori dei servizi sociali«.
Più tardi, ho sentito che la mia risposta ha disorientato i suddetti operatori sociali: »Non c’è giudizio senza che sia valutato anche il giudicatore…«
Ma il mio giudizio sui giudizi di Mia Lecomte, nei brani che mi ha dedicato, è che sono generalmente scolastici. Per riassumere: si tratta del metodo teologico medievale secondo il quale la filosofia non si deve intendere come libera indagine ma come studio nel servizio della teologia. Naturalmente gli studenti erano ubbidienti, all’epoca. L’autore di questo commento non ha letto ubbidientementei brani dell’articolo Barbara Serdakowski e Božidar Stanišić: agli estremi del plurilinguismo. L’»osservatorio« romeno di Mihai Mircea Butcovan (pagg. 198 – 214) e ha contrassegnato in corsivo determinati punti: »Al grado opposto (1) della moltiplicazione linguistica di Barbara Serdakowski, affannosamente tesa a una lingua originaria prima di ogni scrittura, al »cuore silenzioso« della poesia, c’è la produzione poetica nella lingua madre del bosniaco Božidar Stanišić. Quest’ultimo, dopo un periodo iniziale in cui ha acconsentito a farsi annoverare tra i poeti della migrazione italofona (2) – spinto a suo dire, come altri, dalla ricerca di una possibilità di pubblicazione (3) – si è arroccato su posizioni polemicamente estreme (4), difendendo la scelta di rimanere fedele alla lingua »in estinzione« del proprio paese »scomparso«, e più in generale il diritto di ogni autore di essere semplicemente coerente alla propria personale poetica, al di là di qualunque classificazione critica: »Però già da tempo non dubito più se sono uno scrittore migrante. Semplicemente non mi sento uno scrittore migrante. Scrittore forse, ma migrante no […]. Io, scrivendo e pubblicando anche in italiano, posso considerarmi uno scrittore italiano e appartenere alla letteratura italiana contemporanea? Sulla nostra appartenenza, di noi che scriviamo altrove, si sa, spesso decidono altri. Più di uno, in tutti questi lunghi anni, si è interessato su chi sono e come mi sento: scrittore ex-jugoslavo, serbo, bosniaco, bosniaco-erzegovese o italiano. Da tempo rispondo che mi sento davvero uno scrittore di nessuno. E aggiungo che scrivo sia in un mio yiddish (e il mio vissuto della lingua serbocroata, ormai ufficialmente inesistente), che in italiano.
La polemica di Stanišić è rivolta specificamente alla qualifica di »migrante«, che come tale rimanda a una letteratura limitativa della produzione italofona (5) quale si è venuta da principio affermando in ambito critico e editoriale, di cui si è diffusamente parlato nel primo capitolo: Siamo i primi? [...] No, non siamo i primi«, continua Stanišić, aggiungendo il solito elenco di »esiliati illustri« (6) – da Ovidio, a Nabokov, a Rushdie... – tutti sulla stessa »verticale della Storia«, che con i loro destini, le loro opere, esulano dai canoni delle rispettive letterature nazionali; per i quali scrivere altrove diventa garanzia di prolifica disappartenenza. E qui non possiamo che rilevare l’ambiguità della posizione che accomuna alcuni di questi autori, a cui si è già fatto cenno, che oscullano all’interno delle categorie letterarie proposte alla ricerca della propria collocazione: se infatti da un lato Stanišić desidera essere considerato a tutti gli effeti come uno »scrittore italiano contemporaneo«, dall’altro si dice »scrittore di nessuno«, rivendica l’inclusione nella categoria degli autori transnazionali che esulano da qualunque catalogazione nazionalistica (7): scrittori altrove, esuli di tutti i tempi ma vittime soprattutto delle dislocazioni necessitate della Storia contemporanea, che stanno sempre più rivoluzionando i parametri delle classificazioni letterarie«.
Primo: non è bello enfatizzare le cosiddette caratteristiche positive sul conto di altri autori, almeno non in questo modo, direi, provinciale al quale può darsi manchi il giudizio che le poetesse sono migliori dei poeti. Naturalmente, non ho e non avrò nulla contro le suddette poetesse.
Secondo: Mia Lecomte sa bene che, già nel lontano 1996, mi rivolse un’offerta di pubblicazione di alcune mie non poesie (già edite). La verità è che, per la mia consapevolezza della realtà cosiddetta dei migranti, più tardi letteratura italofona, ero entusiasta, tutto finché non hanno iniziato ad emergere fenomeni di cui ho già scritto in Non siamo i primi (in Letteratura e migrazione in Italia / Ecrire ailleurs. Littérature et migration en Italie, a cura di Anna Frabetti – Laura Toppan, »Re-CHErches«, X 2013), e nella prefazione del mio libro di racconti Piccolo, rosso (2012). Su questo non avrei speso più nemmeno una parola: cosa potrei aggiungere? Meglio che non aggiunga niente, perché migralett e italofonett sono sempre presenti sulla mia strada, dove mi trovo anche contro la mia volontà.
Terzo: ora sembra che Lecomte non sappia che non sono mai stato a caccia di editori. Dunque, non morivo dalla voglia che, per qualunque prezzo, si pubblicassero i miei racconti, editi o inediti, non-poesie, saggi... Lei sa altrettanto bene (anch’io ho una sorta di archivio dove ci sono anche le sue lettere) che circa vent’anni fa ho rifiutato la sua offerta che un qualche editore pubblicasse le mie poesie, con la dichiarazione che sono scritte direttamente in italiano. Ecco, non ero e non sono nemmeno ora una persona per tutte le stagioni dell’anno. Scrivendo di me, un tempo, Lecomte ha parlato, diciamo, della mia onestà intellettuale. Ma questo ora non è importante. Passiamo a...
Quarto: nel suddetto studio sono visto anche come un estremista. Va bene, meglio questo che l’ennesima pecora del gregge. E così, arroccato, sono servito in maniera estrema all’autrice di questo studio per affermare il suo dissenso contro la classficazione nel migralett e italofonolett. La capisco, pensate all’oncologo che rimarrebbe senza lavoro nel caso in cui venisse scoperta una cura per il cancro o all’operatore sociale se ci fosse meno povertà nelle nostre città.
Siamo già arrivati al quinto punto, tragicomico perché, secondo me, si tratti della più semplice arbitrarietà, non priva di tendenze che l’inseriscono nel contesto di un’informazione fasulla. Una digressione – benché innominato, credo di essere generalmente ammassato anche tra gli autori già menzionati in questa citazione: »Gli scrittori – anche i meno migranti e allofoni, che pure per anni si sono tutti prestati all’inclusione in un genere accademicamente etichettabile per ritagliarsi uno spazio e guadagnarsi l’ambita pubblicazione delle proprie opere – non possono che ribellarsi all’inquadramento in categorie critiche che non entrino nel merito ‘letterario’ dei loro testi. E chiedono semplicemente di essere definiti ‘scrittori italiani’, una scelta anch’essa estrema e sbilanciata, che finisce per far perdere di vista tutte le caratteristiche innovative della letteratura che rappresentano proprio in quanto migranti, per sminuire l’importanza del fenomeno mondiale di cui sono portatori. Se devono essere considerati semplicemente scrittori italiani, allora il dibattito dev’essere aperto – e lo è stato – su cosa significhi ancora il canone in un contesto culturale contaminato e globale«. Questa salsa mentale non è adatta al mio piatto balcanico, meglio che sia versata sulla pasta dei »veri esperti«. Ai quali auguro: Buon appetito! Ma che tra loro non manchino quelli che dimenticano che nella scoperta della patria letteraria, o delle patrie letterarie, di ogni autore dovrebbero partiredal testo delle loro opere, e non dagli elementi biografici e, naturalmente, dagli inevitabili nome e cognome, così spesso impronunciabili– questo lo sanno anche gli uccelli sulla grondaia. I quali, se sapessero leggere, chiederebbero agli esperti: »Dove sta il problema?« Ma è già il turno del punto...
Sesto: quando i baroni citano i nomi degli esiliati illustri, è normale che sia baronesco; quando questo riguarda altre persone, allora è il solito elenco. Il diavolo mi tenta, mi chiedo di nuovo se quei professori della Sorbona avessero degli appunti su questo.
Settimo: il citato in corsivo merita un saggio sulla banalità della riflessione. Ma mi fermerò solo all’espressione facile di Mia Lecomte sul mio desiderio di essere uno scrittore italiano. Questo desiderio è solo una superficiale spiegazione della questione, per me del tutto logica mentre per i sacerdoti della migralett e della italofonolett è peccatoria e pericolosa. Il peccato mi è chiaro, ma il pericolo che vedo non è proprio un nonnulla. Semplicemente, nel mare dell’elusione di ogni logica del dubbio e sull’italianità dell’opera, prima di tutti gli autori della cosiddetta seconda generazione (per conto del cui conformismo nell’accettazione di questa classificazione ho espresso critica e non solo nei miei già citati saggi), domina la »ragione« dell’origine dei loro genitori e non la ragione dell’approccio al testo.
Ma non è tutto.
Mia Lecomte continua: »Più che sulla definizione di ‘migrante’, dunque, la polemica dovrebbe più coerentemente essere rivolta alla rigidità dei canoni delle letterature nazionali (8), a quello che ancora possono significare in un contesto di transiti culturali e linguistici sempre crescenti. La conseguenza di tale contradditorietà per il poeta bosniaco e linguista – va a toccare proprio l’aspetto più importante dell’identificazione in un determinato sistema letterario (9) – e vorrebbe apparentemente rovesciare l’approccio più diffuso all’italofonia, sovvertendone la prospettiva (10):
»Perché siamo così pochi, noi che abbiamo mantenuto l’abitudine e la volontà di scrivere nella lingua madre? So che non sono molti che, come me, hanno avuto l’occasione veramente straordinaria di avere vicino un traduttore come lo è Alice Parmeggiani, a volte Ljiljana Avirović, non solo traduttrici ma pure ottime conoscitrici della letteratura degli slavi del sud. Oltre a ciò sarebbe interessante chiedersi perché anche autori stranieri provenienti, ad esempio, da zone francofone, slavofone, ispanofone o germanofone, hanno deciso di scrivere solo in italiano?«
Viene dunque rivendicato il diritto di rimanere fedeli alla propria lingua madre, mentre l’ambito delle letterature transnazionali a cui viene fatto riferimento, in merito ai processi linguistici che concernono tali letterature esclude di per sé qualunque irrigidimento prospettico, l’utilizzo di qualsivoglia categoria assoluta. Abbiamo visto finora quanto vario e personale sia il rapporto di un autore con le lingue coinvolte nei processi di transito, da cui non si esclude la necessità più o meno impellente di raggiungere un pubblico, l’unica alla quale Stanišić sembri fare riferimento. Sono dinamiche che spesso, proprio per la loro complessità, per la molteplicità dei processi psicologici e culturali coinvolti, sfuggono proprio ai principali interessati (11), gli stessi autori transnazionali che a volte, anche legittimamente, ambiscono solo a trovare una collocazione ‘certificata’ all’interno di questa o quella letteratura nazionale. Limitandosi a lamentare l’esclusione dai circuiti nobili della nazionale, si amareggiano tanto da compromettere la qualità della propria produzione narrativa e poetica, non pienamente consapevoli dell’avanguardia che incarnano e rappresentano, ne banalizzano la portata ripiegandosi polemicamente su strumenti superati e parametri identificativi riduttivi (12).
Nel caso dello stesso Stanišić (13), ad esempio, il fatto di avere incontrato sin dal suo arrivo in Italia una traduttrice (14) come Alice Parmeggiani, oltretutto esperta della letteratura degli slavi del sud, come riconosce lui stesso è stata sicuramente una ragione sufficiente a spingerlo a conservare la propria lingua poetica senza avventurarsi in sperimentazioni compositive o traduttive che avrebbero rischiato di comprometterne la letterarietà. Perché le poesie del poeta bosniaco, da lui definite come ‘odi di forma impura’, o più in generale ‘non-poesie’ – con un’ostentata modestia volta in realtà a sottolineare la ricercatezza di tale ‘impurità’ e una ‘poeticità’».
Vale la pena discutere di tutto ciò che ho evidenziato dall’ottavo al quattordicesimo punto insultando così l’intelligenza dei lettori indipendenti? Vale la pena che io provi a captare dove Lecomte è più banale e meno comica nella sua teologia, e adesso anche nel suo dottorato? Che io dica, ma non a lei – »il caso Stanišić« forse esiste, ma esistono anche i sacerdoti della letteratura migrante? Che io le dica che degli scrittori che non hanno smesso di scrivere anche con la fuga dalle loro – quindi non sapendo se saranno mai pubblicate loro opere, lei davvero non sa abbastanza e anzi niente? Ma qui siamo già nel giardino di quel filosofo cinese che passeggiando coi suoi allievi pondera se i pesci nello stagno sono felici oppure no. Alla fine del dibattito, da parte dell’allievo che insisteva che i pesci sono felici, riceve la risposta che nemmeno lui, benché maestro, può saperlo. »Perché tu non sei me…« Semplicemente, nel »caso Stanišić«, Mia Lecomte è entrata negli »spazi« in cui si è permessa la condanna dei miei orientamenti, non ha nemmeno fatto cenno di volersi togliere gli scarponi del suo dottorato passeggiando per la mia opera, ma ancor meno per la mia pluriennale lontananza dalla letteratura del mio paese, più complessa di quanto si può immaginare.
No, non si è fermata solo a ciò su cui si è già dilungata, ma si è spinta fino alla sua verità sul mio essere compromesso, sul piano più importante, quindi letterario, che io preferisco lasciare ai lettori, mentre ai futuri ricercatori fornisco un solo messaggio: siate cauti in occasione delle consultazioni di questo studio in cui sono un ambiguo rovesciatore di un ordine delle cose. Chissà, forse a loro non sfuggirà la domanda del perché solo io ho ricevuto questo status in Di un poetico altrove? Solo perché la studiosa, che enfatizza i propri vent’anni di »appassionato« e solitario impegno nell’ambito di quella che viene ora preferibilmente definita »poesia transnazionale italofona«, l’urgenza del distacco ha comportato una presa di distanza »letterale«, fisica, che permettesse di ripercorrere, da una nuova angolazione, lo sviluppo di ricerche fatte a stretto contatto con i poeti (pag. 10), ha dimostrato com’è anche ultracrepidaria nei suoi giudizi e, naturalmente, consigli? Chissà, forse un lettore indipendente in quest’occasione determinerà anche la domanda sul conformismo e la libertà di pensiero? Ma così, detto per inciso, si chiederà anche di chi è il termine imigritudine in Di un poetico altrove (senza glosse che rispondono: Božidar Stanišić)?
Ma, alla fin fine, perché fare così tante domande? Suppongo che sarebbe stato meglio se avessi espresso questo commento solo con la riflessione sul pensiero di quel pittore greco dell’antichità: »Che il ciabattino non giudichi più in su della scarpa«.
Traduzione dal serbo-croato di Veronica Bonelli1 Mia Lecomte, Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona (1960 – 2016), Franco Cesati Editore, Firenze 2018
Opomba urednika: Na željo avtorja objavljamo besedilo v italijanščini, saj ga je objavil v okviru nekega bloga, ki pa je nepričakovano izginil. Obljavljamo pa ga tudi zaradi tega, ker je okrog 2,5 odstotkov obiskov revije tudi iz Italije od dveh milijonov v času od maja 2017. A objavljamo ga v podporo avtorja članka, ki v Italiji doživlja tudi silenzio zaradi svojih stališč in zaradi izključnosti drugih.