Siedono i ragazzini sulla soglia di casa
e guardono il cielo turchino, cercando di
indovinare chi sta seduto su una nuvola:
è un uccello o con lui qualcun altro?
E piomba l’uccello dalla nuvola
sui bambini seduti sulla soglia
e becca il più piccino sulle guance:
Vieni! Andiamo a leggere il sole!
E si levano in volo verso il cielo
affondando nel tenebroso oceano.
D’allora c’è un sole in più in cielo
e un sole in meno sulla terra.
ICARO*
Una linea bianca sul manto del cielo.
Nell’azzurro una bianca incrinatura.
Un lampo. E un buio ancora più fondo.
Poi una ferita in mezzo al volto.
Si librò in volo e cadde a terra
Icaro dalle ali spezzate.
Ma forse voleva soltanto
correre verso il traguardo
dal deserto sterminato,
rompere il cerchio di ghiaccio.–
Morto rimane una stella
e illumina la nostra notte.
*Marko, il ventunenne figlio del poeta è morto suicida nel 1979,
diventando – dopo aver sconvolto la vita del padre e dei famigliari
– tema ricorrente e doloroso della poesia di Pavček.
RITORNELLO
Non abbiamo più molto tempo,
corpo,
per salire su qualche altura,
per oziare nell’erba,
le ragazze dei tempi remoti non sono
che un ricordo senza passione e volto;
non abbiamo più molto tempo.
Non abbiamo più molto tempo,
anima,
l’impaziente spegnitoio cerca
di smorzare anche il tuo giorno,
nonostante tu sia immortale.
Come il bambino che, a furia di crescere,
non riesce più a entrare nelle sue scarpe,
come il nonno che si abitua ai nipotini,
così noi due andiamo per la strada di tutti quelli
che registrano il più con il meno
senza vincita e senza perdita;
non abbiamo più molto tempo.
Dovremo scendere. Dal treno. Dal vagone.
Dalla carrozza della vita. Parte di una cerchia
concreta nell’incomprensibile aldilà,
varcare la porta della mai conosciuta dimora
in una nuova valle, profonda e silenziosa,
della terra,
nell’oltretomba.
Bisognerà scendere. Ma io preferirei continuare il viaggio,
guardare ancora i mari e gli orizzonti
e il bianco grano saraceno e le ragazze infervorate,
sedere ancora accanto al finestrino del vagone e contare
le stazioni lasciate dietro e i viaggiatori che via via
salgono e scendono come si sfoglia
l’albero davanti alla casa degli avi fin
dagli inizi. La casa dove torniamo.
Con davanti due espressioni di un’unica faccia –
un sinonimo: culla e bara.
Non abbiamo più molto tempo.
BOSCO
Bosco ameno che dai riparo
alle mie ombre e le copri con le tue,
bosco, creato per essere dimora del silenzio,
per la pienezza delle ghiande, per gli incanti degli
uccelli, per la vicinanza del paradiso e dei peccati
terrestri. o bosco di Šentjur* che offri il tetto a chiunque,
accoglimi nel tuo paese di foglie** che segni da solo – ciò che io non so fare –
con la nitida scrittura del vento e delle brezze,
bosco, verde necrologio dei morti
sui tuoi rami e nelle grotte –
iridi onniveggenti –
nelle profondità sottostanti,
sii ciò che sempre eri, la patria
del mistero, una vera casa per i viventi,
per i morti pace e presenza divina,
e per me, viandante, riposo per un silenzio raccolto,
prima di cadere ai tuoi piedi
come le tue foglie prima dell’ inverno.
* Località slovena
** In sloveno list significa foglia e foglio. In questa poesia
il poeta si richiama a tutti e due i significati.
IL GIRO DELLA VITA
Ogni strada passa davanti a qualche fiore
morto. E passa davanti a qualche uccello
morto. E passa davanti a qualche morto filo d’erba
o essere. Così cammini come dopo una battaglia
attraverso la distruzione, la fine e la morte
con l’offuscata pacatezza di un viandante. L’acre
odore della sconfitta e l’asfissiante lezzo di putredine
ti seguono. Ti sei abituato ad essi
come alle perdite e alle constatazioni
che l’ascesa e la caduta vanno a braccetto
come la morte con la vita.
Va per ogni strada
il viandante. Va per ogni strada
il pellegrino. Va per ogni strada
il dio seminatore. Colui che porta
in mano la speranza e il seme. Li semina
tra le porche nella terra e sulle pietre per
nuovi fiori, uccelli, fili d’erba ed esseri.
E di nuovo batte
il cuore del mondo, e dentro vi
si trasfonde l’eternità. Come una incessante
fonte di tutto
e meta
sconosciuta.
TUTTI VIVI, TUTTI ETERNI
Devono venire ancora tanti,
tanti esseri affascinanti
e puri.
Li attendo con la speranza
e non oso muovermi
né chiudere gli occhi
sul far della sera.
Si sono annunciati nel sonno
promettendo però realmente:
amici,
antenati,
poeti morti,
angeli che dimorano
in noi e nei nostri sogni.
Ho aperto la porta alle lontananze,
le finestre al cielo, il cuore ai venienti...
Senza di loro la casa
è squallida, spopolata
come l’anima che non ha
con chi scambiare una parola,
ma con loro la trasporta
fino agli arcani lidi
della veggenza
e della sapienza
la loro ondata di luce.
APPUNTI SULLA MORTE
... E durante questa stupenda mattina ho capito
che la morte non esiste, che la vita è eterna. Nikolaj Zabolocki
Tra erbe e illusioni,
tra sogni e persecuzioni,
tra speranza e disperazione,
tra tutto ciò che esiste e ciò che dovremmo essere,
su questa nostra unica terra
sparano,
sparano,
di giorno in giorno sparano
sugli altri, su se stessi,
sul presente e sull’indomani,
contro le idee, gli ideali, le attese, l’uomo;
in nome dell’uomo,
in nome di un domani,
in nome, in nome, sempre in qualche nome
sparano,
sparano,
e gli uomini
non smettono mai
di sparare,
di cadere,
di morire
su questa nostra unica terra in corsa verso il futuro.
Mi tappo le orecchie per non sentire gli spari,
mi copro gli occhi per non vedere i morti
e ripeto, compiangendoli:
in nome della vita
non sparate più
né in questo né in quel nome.
* * *
E poi cala un gran buio:
nessun desiderio, nessuna speranza,
nessun pensiero, nessuna aspirazione,
nessuna bestemmia, nessuna parola,
nessun volo, nessuna caduta,
nessun dubbio,
soltanto il vuoto,
una grande solitudine,
una grande fossa,
un grande incubo,
un enorme punto interrogativo:
questa immensa impenetrabile oscurità
è tutto ciò
che è rimasto?
È tutto
questo cranio senza pensieri,
questo cuore senza palpito,
senza sangue e senza emozioni,
il corpo senza sensi, la mano senza una stretta,
questo petto senza un uccello,
l’uccello senza il canto,
questa bianca immobilità,
questa bocca senza grida,
incapace di vincere e lacerare il silenzio,
questo buio impenetrabile e onnipotente?!
Senti i passi? Solo i passi, i passi
risuonano senza posa,
i passi degli arrivati dall’eternità
e dei partenti verso l’ignoto...
* * *
A te che esistevi, a te in un altro periodo,
in un altro luogo, a te in me
ugualmente in un altro me stesso –
cosa sei tu adesso e cosa sono io
che ancora ti chiamo, ma con voce mutata,
con la voce come prima senza eco,
a te e per te sto ricreando la parola,
una sola parola:
amo.
A te, qualunque cosa tu sia: un morto, erba, stella,
una briciola di ricordo, il bruciante rimorso,
a te tutta la luminosità della ricerca,
tutto lo splendore delle illusioni,
tutta l’acutezza della verità,
tutta la solitudine dell’esperienza,
come resta, come si corrompe
il bianco e bel cadavere di un morto –
la più ricercata e la più ingannevole parola:
amo.
Ma vedi, muoiono anche le parole, ancora un po’,
quel che basta all’uccello di sorvolare il campo,
e non riuscirò più a farla uscire di bocca
e non ce la farò più a plasmarla dal sentimento,
viva tra noi due non ci sarà più,
perciò prendila ora e per questo motivo, prendi
questa unica cosa che sin dall’alba mi porto dietro
per domani, su, prendi per il viaggio lontano da me
questo appena vivo:
amo.
* * *
Questo corpo
andrà
nella terra.
La terra si riprende
quello che era suo.
Ma l’inquietudine,
quest’inquietudine
che fine farà?
Rimarrà come un ricordo
o come un pungente ginepro
che brucia immaturo
e si riduce in cenere
o sul campo del mondo
diverrà seme
per una nuova semina?
PREGHIERA
O terra grave e buia
dal profumo e dall’anima secolare,
dai lombi ubertosi,
terra buia e pesante,
tu che origini voluttà, nascita e crescita,
tu che generi la spiga
e le braccia e il petto e la bocca,
tu che col tempo rivuoi per sempre
e le braccia e il petto e la bocca,
purifica queste braccia inermi,
colmale con la tua fragranza,
trasformale in rami dalle foglie verdi,
e scava il petto per farne
un nido di uccelli, e feconda la bocca
nell’acqua del desiderio atavico,
nelle profondità del linguaggio,
nel canto che trionfa e redime!
Dammi poesie, poesie, la lava di parole
feconde, quest’onere prodigioso, prima
di ricoprire le mie braccia –i verdi rami, prima
di posarti sul mio petto, sugli uccelli e i loro canti,
prima di riempirmi la bocca,
prima di riempirmi la bocca
con la disperazione del silenzio e della muffa
per sempre.
POESIA DELLA TESTA
Cosa vuole la mia testa
sotto il sole d’autunno
tra le pannocchie di mais,
cosa vuole la mia testa?
Vaga come un fantasma
senza spalle e braccia,
senza parole e suoni
vaga come un fantasma.
Cosa vuole la mia testa
sola e all’imbrunire?
Pietoso s’accosta il boia
con passo fermo e sicuro,
la terra riempie la bocca,
la terra – prodigio di vita.
La strada scende a valle,
ma non conduce al male.
RICERCA
A Osip Mandel’štam
Soltanto azzurro e pietra.
Soltanto pietra e azzurro.
E nel cuore la tenue fiammella
del ricordo.
E cosa vorresti ancora?
Tu ravvivi
la fiamma col ricordo,
scolpisci
la pietra con l’azzurro.
E come oltre una soglia
entri in casa tua e
in patria.
ANIMA
Non ne vale la pena, disse,
e si trasferì per sempre
tra le stelle e le ombre.
Non è l’ultimo degli sloveni*.
Nell’atroce dilemma:
vivere umilmente o brevemente,
un bell’autunno
smise di cantare.
*N.d.t.: Il tasso dei suicidi in Slovenia è altissimo.
OH, ESSERE ALMENO PER UN ISTANTE...
Non voglio avere più questo volto
né la fronte, né le guance, né le sopracciglie.
Non voglio. Non posso. Non oso.
Non voglio la solitudine, dura come il peso
di due mani vuote sul viso.
Io
non voglio essere più io.
E’ più bello essere in mezzo a un prato
verde erba.
Mossa dal vento,
si appoggia sulla spalla
della sua vicina,
si appoggia e si riposa...
E’ solo,
solo
l’uomo al mondo.
Lotta da solo
e cade,
con una folla di uguali a lui,
da solo.
VIVERE
Vivere –
essere
come una vela con il vento dell’inquietudine.
Andare e andare, andare di continuo
dalla mattina alla sera.
Vivere –
un giovane giorno
cadere per la prima volta, per la seconda
eccetera...
Sanguinare a causa della bella botta
e dopo portare la ferita
ogni giorno più profonda ,
ogni giorno più grande
fino all’ultima caduta.
Vivere –
venire
come un animale colpito da un fucile
sulla soglia delle trionfanti tenebre,
affinchè per l’ultima volta sgorghi
dalla sua bocca invece del sangue
quel vecchio,
maledetto,
indistruttibile:
vivere!
A UN FETO
Non sei ancora un corpo,
non sei ancora un viso, non
sei né riso né pianto ancora,
sei solo un roseo feto
nella culla dell’utero.
Sei solo una splendida possibilità,
una esile pianticina del mondo
che passa da un cuore all’altro,
un miracolo, la futura felicità,
e arrivi all’imperioso richiamo
di un antico travaglio
e vittoriose ti salutano
le bandiere bianche dei pannolini.
Iz zbirke Poganske hvalnice, 1976
Dalla raccolta Inni pagani, 1976
LA MORTE AVVIENE UNA VOLTA SOLA
La morte avviene una volta sola,
la vita invece dura e dura e dura.
Come la ripetizione di un ritornello conosciuto.
Come l’ascolto dell’anima eterna.
Come il passaggio di leggenda in leggenda.
Come la trasformazione di una goccia in stalattite.
Come lo scorrere della sabbia nel deserto.
Come il pellegrinaggio da una eternità all’altra.
La morte avviene una volta sola.
La fine è ancora fine e già l’inizio
tra vivere ancora e già partire
per paesaggi ignoti dove vanno
le lontananze cosmiche, dove continuano
a intrecciarsi i fili della vita.
La morte avviene una volta sola.
Solo un attimo. Solo un taglio. Solo una caduta.
Solo una partenza da qua
ai cari dall’altra parte,
in un silenzio assoluto
o in un colloquio sommesso e impercettibile,
da dove vengono senza sosta,
come se si accendessero le stelle,
nuovi negatori della morte –
i bambini, angeli scarmigliati.
Così non finisce e non comincia
mai
il cerchio eternamente chiuso.
L’anima dell’esistenza splende.
L’argenteo corno dell’addio
annuncia soltanto l’istante del mutamento.
Iz zbirke Temna zarja, 1996
Dalla raccolta Tenebrosa aurora, 1996
QUASI UNA FAVOLA
Forse è così da sempre:
Ti perdi semplicemente e non ci sei più.
Né tra i campi né tra i vigneti
né tra i cardi né tra gli amici,
ti perdi così totalmente
senza ombre e sogni
da essere invisibile, ma era da tempo previsto
che non ti trovassero neanche i parenti stretti
come non ti trovi neanche tu.
Ma così è da sempre.
Dopo non ci sei da nessuna parte
pur essendo ancora dappertutto
nella mente di tutti e di nessuno.
E il tempo corre, corre e corre
di luce in luce,
di notte in notte.
Poi col tempo incomincia a penetrare
attraverso i tuoi occhi e le orecchie
e attraverso la bocca e la gola
nel tuo cuore
la terra
che amavi
e ti succhia, succhia e assorbe,
finché non diventi tu stesso
una zolla
d’argilla,
un essere... una creatura del mondo
e sei di nuovo presente dovunque.
E su di te s’incrociano le croci
e i tuoi vicini si avvicinano
a palmo a palmo
com’è destinato,
come sta scritto
per tutto e per ognuno
da sempre.
Iz zbirke Temna zarja, 1996
Dalla raccolta Aurora tenebrosa, 1996