Passarono mesi e settimane e in campagna irruppe impetuosa la primavera. Arrivò sospinta dai venti del sud, sciolse la neve e il ghiaccio e impresse il bacio del sole sulla terra addormentata. E questa si risvegliò cominciando a fiorire.
Il Pazzerello intanto andava vagando per la campagna ed era sempre di buon umore; trovava di continuo brava gente, disposta a dare le briciole dei propri pasti a lui e al suo cagnolino.
Ogni primavera, talvolta anche all’inizio dell’autunno, accadeva qualcosa di straordinario. Il Pazzerello riceveva la visita degli uccellini-reattini lungo le strade che percorreva, in qualsiasi luogo egli gironzolasse. Li chiamava così, ma in realtà quelli non erano reattini, cioè gli esseri minuti che si nascondono nei buchi e tra le pietre dei muri. Era invece un genere di uccelli di colore grigio-azzurro, snelli e dalla coda piuttosto lunga. Comparivano all’improvviso accanto a lui e, benché fosse assorto nei propri pensieri, riuscivano sempre a richiamare la sua attenzione. Cinguettavano ed erano terribilmente ciarlieri. Avevano tanto, ma proprio tanto, da raccontargli! Cercavano di prevenire l’un l’altro, completavano a vicenda i loro discorsi, ampliavano all’infinito qualche avvenimento, descrivevano qualche uomo, animale, pianta o pietra con una ricchezza di particolari degna di un cesellatore. E lodavano il vento, il sole, le nuvole, esaltavano il cielo e la terra, le mattine e le sere, ed anche se stessi, l’un l’altro, le proprie capacità, la loro inventiva e abilità. Facevano baruffa in presenza del Pazzerello, arrivavano quasi al punto di azzuffarsi, tuttavia si rappacificavano sempre continuando a garrire e ad emettere versi lievi e squillanti. Dai loro becchi uscivano suoni a fiotti, che si congiungevano, diffondendosi da tutte le parti.
Ogni volta che venivano a trovarlo, il Pazzerello si inteneriva fino alle lacrime. Si fermava e li ascoltava incantato, finché la loro sinfonia non si esauriva. Non è possibile raccontare quanto bene volesse a quegli esserini, con quanta tenerezza il suo cuore li amasse. E cominciò a desiderare, a desiderare ardentemente, ciò che poi in realtà avvenne: gli uccelli cominciarono a posarglisi sulle spalle, sulle braccia, sulle mani e i più coraggiosi si lasciarono accarezzare; quelli ancora più audaci permisero che strofinasse il suo viso contro le loro penne e sentisse il loro profumo; avevano odore di terre lontane, di fiumi sconosciuti, di laghi, mari, boschi, pianure, montagne e addirittura di stelle e di costellazioni...
Gli spifferavano ogni cosa, pavoneggiandosi a più non posso; talvolta si lamentavano e protestavano ... poi volarono via a frotte come una piccola nuvola. Al Pazzerello ciò dispiacque molto, stava quasi per prorompere in lacrime per la loro partenza. Ma si consolò ben presto e un’allegria maliziosa, spuntata da chissà dove, s’impossessò di lui ed eccolo pronto a ballare, saltare, suonare lo zufolo e mandare grida di giubilo con tutta l’anima.
Il cagnolino lo seguiva correndo, saltellando ed abbaiando fin troppo vivacemente, senza alcun motivo, spinto solo da un un infinito entusiasmo per tutto ciò che li circondava. Tutto era infatti inondato di luce, risplendeva, palpitava, come se piccoli fuochi si accendessero nelle cose e anche le pietre lampeggiassero.
Durante quella primavera però, sotto tutta quella bella apparenza, si celava qualcosa di oscuro, infausto e minaccioso. Andava strisciando dietro a loro, li osservava di nascosto e attendeva. Era l’ombra di un grande e nero avvoltoio che era terribilmente arrabbiato con il Pazzerello perché aveva aiutato il Martire a portare la croce sul monte; aveva inoltre ostacolato la crocefissione per mezzo delle sue risate contagiose ed infine era diventato addirittura amico del Martire. Il perfido uccello aveva deciso quindi di vendicarsi e di prendersi burla di lui in qualche modo. Ruminò a lungo e meditò come abbindolarlo, in che modo rubargli l’allegria, la gioia e la purezza del cuore. L’uccello era infatti a conoscenza del segreto in che maniera a questo mondo tutto, ma proprio tutto, potesse essere rubato.
Santo cielo! Quante cose si possono sottrarre, se si ha una certa abilità e se la nostra coscienza è assopita o morta addirittura. Si può togliere a qualcuno il buon sonno e la salute, l’allegria, la spensieratezza e la serenità del cuore, si può rubare la pace e la fortuna, possiamo perfino appropriarci dei doni che ci sono stati elargiti dall’Altissimo. A dire il vero non esiste nulla che non si possa trafugare, a condizione tuttavia di essere abbastanza abili e veloci, nonché ciechi e sordi nei riguardi della Giustizia divina. Questa infatti prima o poi indaga su ogni cosa e restituisce tutto, il bene con il bene, il male con il male.
Accadde così che un giorno il Pazzerello giunse fino a una torre grigia, nella quale viveva una giovane di rara bellezza. Egli non aveva mai visto niente di così leggiadro e dolce. La fanciulla lo ricevette come un re e qualunque cosa essa dicesse, suonava come il tintinnare dei campanellini da messa.
Il Pazzerello la ascoltò a bocca aperta e talmente incantato da non sentire il ringhiare del suo cagnolino. A quest’ultimo la meravigliosa ragazza non piaceva affatto. Le orecchie e soprattutto il naso del cane percepivano qualcosa che non era né piacevole né dolce e tanto meno armonioso. Il soave tintinnìo che il Pazzerello sentiva era per le orecchie del cagnolino nient’altro che stridore e gracchiare, suoni simili a quelli cupi di una campana rotta. Cercava di nascondersi dietro al Pazzerello, si rifugiò poi sotto la panca, rincantucciandovisi, ma poiché il suo ringhiare non mise in guardia l’amico, cominciò pure ad abbaiare. Alla fine il Pazzerello gli diede un’occhiata e lo rimproverò. Ciò non bastando, senza pensarci su, lo prese sgarbatamente per il collare e lo mise in modo villano fuori dalla porta.
Vedete dunque come maltrattò il suo amico ed alleato. E lo fece, benché sentisse in sé una voce che lo avvertiva del pericolo e che gli suggeriva ciò che doveva fare per non smarrire la retta via e per non cadere in trappola. Oh, con quanta forza presagiva questa trappola! Ciononostante vi cadde dentro, e come! I segni premonitori si fecero sentire e anche con molta intensità, ma non volle ascoltarli. Con coraggio pazzo e un fittizio vigore si impossessarono di lui e lo persuasero che poteva riuscire in tutto e che poteva vincere qualsiasi ostacolo.
Inoltre, guardate un po’ che miracolo! L’incantevole fanciulla si chiamava Esmeralda. Proprio così come la figlia del grasso re e della ancor più grassa regina. Il Pazzerello si meravigliò e chiese di nuovo:
«Sei davvero Esmeralda?»
«Da quando sono a questo mondo mi chiamano così,» rispose la fanciulla con voce melodiosa.
«E come mai vivi completamente sola in questa torre? Dove sono i tuoi? Tua madre, tuo padre e tutti gli altri?»
La fanciulla proruppe in pianto e gli narrò tra le lacrime la sua tristissima storia. Raccontò che suo padre e sua madre erano morti due anni prima e proprio nello stesso giorno e alla stessa ora. Su di loro era precipitata una grossa pietra. «Quella lì,» disse indicando la pietra davanti al ponte levatoio. La torre era infatti circondata da un fossato di difesa che si poteva varcare solo attraverso il piccolo ponte; questo naturalmente si poteva sollevare e abbassare. La torre era attorniata da alti cipressi di colore verde scuro tendente al nero. Erano stati piantati talmente fitti che il sole faceva fatica a passare attraverso le loro chiome a forma di candela.
«Povera creatura,» disse addolorato il Pazzerello. E aveva voglia di avvicinarsi a lei e di farle qualche carezza per consolarla.
La giovane continuò: «E così sono rimasta sola. Mio fratello se ne andò in giro per il mondo molti anni or sono. Penso che non ritornerà più, così almeno è il mio presentimento. Lo vedo giacere in una profonda gola di montagna. Scivolando su un fradicio e alto sentiero è caduto e si è ammazzato.»
«E le zie, gli zii e i cugini...?» continuò a chiedere con interesse il Pazzerello.
«Non ho più nessuno, sono sola, proprio sola su questa terra,» disse chinando con grazia la sua bella testolina.
Il Pazzerello sentì per lei una profonda compassione. E nel suo cuore si accese un amore improvviso per quella giovane triste, sola e abbandonata. Decise quindi che si sarebbe occupato di lei, che avrebbe rinunciato almeno per un po’ alla sua vita da girovago e a quel suo eterno andare, poiché la pietà che si era destata in lui era più forte del suo ardente desiderio di terre lontane.
La giovinetta ne fu felice, fece un salto di gioia girando su se stessa. La sua gonna color rosso fuoco si schiuse, mettendo a nudo per un momento i suoi polpacci snelli e scuri come il cioccolato.
«Oh, che meraviglia!» esclamò lei.
Fece di nuovo una piroetta, mentre iI Pazzerello si sentì inondare dal fascino del suo volto bruno di zingara. Gli occhi neri di lei lo baciarono con passione sulla bocca.
Preparò poi, per festeggiare la decisione del Pazzerello, una cena lauta e saporita. Arrostì un’anitra e posò sulla tavola una bottiglia del suo vino migliore e vecchio di qualche anno.
Mentre i due mangiavano e bevevano, il cagnolino guaiva dietro la porta, ma il Pazzerello non lo sentì.
A dir il vero lo intese, ma non gli passò nemmeno per la mente di farlo entrare nella stanza. Si scolarono il dolce vinello, brindarono, risero, raccontandosi barzellette e divertendosi un mondo.
Il vino, nel quale c’era un filtro malefico molto efficace, stregò il Pazzerello inebriandolo; cominciò quindi a lanciare occhiate sulla candida camicetta della zingara, sul suo seno semiscoperto, sulle sue spalle nude, sul collo sottile e verso una delle sue gambette che si denudava ogni tanto, quasi involontariamente fino al ginocchio e anche un po’ più in su. Nel Pazzerello si stava accendendo quel fuoco dolce e pericoloso, che secondo l’opinione di tutti, in lui non si sarebbe mai acceso; tutti credevano infatti che egli fosse completamente al sicuro da questo pericolo, poiché non era come gli altri, ma solo un grande bambino.
La giovane intanto rideva e rideva, facendo risuonare le sue parole in modo magico. Si accorse naturalmente che gli sguardi del Pazzerello diventavano sempre più ardenti, vide con quanta voluttà palpeggiavano il suo corpo e come sfioravano tutte le sue parti nude. Ma la giovane continuava a ridere ancora più forte, facendo sentire ogni tanto la sua voce melodiosa, incantandolo e invitandolo sempre più all’intimità.
Il tavolo oscillava, come pure il soffitto, le pareti rotonde giravano e tutto stranamente diventava doppio, nebbioso, esalando vapori febbrili per il sempre più vigoroso divampare delle fiamme nel corpo eccitato del Pazzerello, a causa di una malvagia fattura...
Il cagnolino guaiva ancor più forte dietro la porta, si mise pure a grattare e infine cominciò ad abbaiare quasi selvaggiamente. Ma il Pazzerello non sentiva nulla. Le sue orecchie erano ostruite dal grasso dell’arrosto e i suoi occhi ricolmi di vino ingannevole.
Dopo la cena la giovane si alzò stiracchiandosi e facendo ondeggiare come una serpe il suo corpo color cioccolato. Il Pazzerello non riuscendo più a contenersi, le si avvicinò barcollando, l’abbracciò in modo goffo e impetuoso, mentre lei rideva, rideva beffarda e cercava, in apparenza, di sfuggirgli. Lo prese infine per mano e lo condusse in un’altra stanza. Si coricò su un grande letto e gli permise di spogliarla. Gli offrì il suo corpo voluttuoso come una bevanda eccitante che egli succhiò tutta la notte e che lo stordì tanto da portarlo come in un vortice all’incoscienza.
Mentre giaceva per terra, dove la seduttrice sprezzante e fredda lo aveva spinto, dopo averlo vinto con la sua astuzia, entrò volando nella stanza l’ombra dell’uccello nero. Si posò sul petto del poveraccio e fece un’incisione nel profondo del suo cuore con il suo becco tagliente. Ne estrasse la piccola luce, la fiammella inestinguibile e se la portò via spiccando il volo con grande strepito.
Accadde così e in tal maniera furono rubate al Pazzerello la retta via ed anche la scintilla che suscita la gioia innocente dalla mattina alla sera, dalla sera alla mattina.
Fu risvegliato dal fresco dell’alba. Giaceva davanti alla torre sulla fredda e umida terra e tutto gli doleva: le braccia, le gambe, il ventre e soprattutto la testa. Vicino a lui era accovacciato il cagnolino e gli leccava il viso. Guaiva sommessamente e con grande tristezza.
Con fatica e lamentandosi il Pazzerello si rizzò sulle gambe traballanti e lentamente si affacciò alla sua memoria la notte passata. Mandando un gemito, si appoggiò a un cipresso e pieno di cupa disperazione fissò lo sguardo sulla torre. E guardate che miracolo! La torre era tutta ricoperta da arbusti spinosi, era semidistrutta, senza tetto e senza porte, perfino senza finestre. Il ponte levatoio si stava abbassando e già marciva nel fossato, dove si raccoglieva l’acqua puzzolente. Tutt’intorno strisciavano salamandre giallonere e rospi gonfi dall’andatura vacillante. Nessuna traccia invece della bella giovane.
Traballando, il Pazzerello si avviò verso i campi, dove il sole mattutino lo cinse e cominciò a riscaldarlo amorevolmente.
«Ahimè, ahimè!» gemeva e con lo sguardo spento e un terribile dolore nel cuore, guardò verso il gruppo degli alti cipressi che circondavano le rovine.
«Esmeralda!» chiamò con acuta sofferenza. «Esmeralda, Esmeralda!»
E non c’era più gioia in lui. L’allegria era scomparsa, il mattino non rifulgeva più e il canto degli uccelli per lui divenne muto. Le gocce della rugiada che emanavano sempre bagliori nella sua anima, sprigionandovi cascate di lampeggiamenti, veri e propri fuochi artificiali di meraviglia e di dolce trepidazione, ora non risplendevano più e non erano affatto simili a minuscole perle, a preziosi diamanti. Anche la ragnatela bagnata di rugiada e rischiarata dal sole nascente non gli ricordava più la Via Lattea, non suscitava più in lui prodigiose visioni, percezioni di interi sistemi planetari e illuminazioni sull’inesplicabile, sull’indicibilmente misterioso... Le ragnatele non erano altro che tele di ragno cenciose, morte, non parlavano più, non narravano più storie reali dell’universo. Anche il fresco venticello del mattino che, come al solito lo aveva bagnato e lavato, rendendolo completamente sveglio, non aveva potere su di lui. Era come se non lo avesse toccato; certo, l’aveva bagnato, ma il Pazzerello non se ne era accorto. Il verde frumento che ondeggiava nella lieve brezza, non gli parlava più del cammino e della parola vivente del suo Maestro e nel movimento di migliaia di spighe non udiva più le parole della sua eterna Guida. Gli ulivi che lo avevano sempre pervaso del loro balsamo, colmandolo con la grazia del vedere e del sapere interiori, quando si addentrava in mezzo a loro, lo lasciavano freddo, intorpidito e semimorto.
Al posto di tutto ciò c’era in lui soltanto un ardente e doloroso desiderio della donna che si era presa gioco di lui durante tutta la notte e della quale si era invaghito con tutta la tenerezza e la dedizione del suo cuore di fanciullo. Questa bramosia lo rendeva muto, l’intensità di questo sentimento lo portava alla spossatezza e lo faceva soffrire in modo atroce. Andava vagando per i campi, per strade sconosciute, attraversando colline e montagne, chiedendo dappertutto notizie della donna di quella notte, della sua dolce, anzi, dolcissima fanciulla, della sua amata, follemente amata Esmeralda.
Anche il suo cagnolino diventava sempre più triste. A testa bassa e di malavoglia si trascinava dietro al suo amico.
La gente, e soprattutto i bambini, si accorsero ben presto che il Pazzerello non era più lui e cominciarono a deriderlo, ad offenderlo e a cacciarlo via dalle loro case. I monelli correvano dietro a lui, sparlavano alle sue spalle, gli mostravano la lingua, gli gettavano dietro perfino i sassi, gli facevano lo sgambetto, preparavano con l’erba dei lacci ed egli inciampando cadeva, mentre i ragazzi lanciavano grida di giubilo. Tutto era stranamente e terribilmente cambiato. Là, dove prima lo accoglievano a braccia aperte, rallegrandosi già da lontano della sua venuta, chiamandolo e invitandolo, ora sputavano dinanzi a lui, girandosi dall’altra parte e torcendo il naso come se puzzasse terribilmente... Non gli davano quasi più nulla da mangiare e in breve tempo, tanto lui quanto il suo cagnolino, divennero magri, scheletrici e veramente brutti.
Il Pazzerello tuttavia non si stancava mai di chiedere notizie della scomparsa Esmeralda. Non l’avesse mai fatto! Appena la gente udiva questo nome, si metteva a sghignazzare, tenendosi la pancia, e i monelli, linguacciuti, si mettevano a saltare dietro a lui cantando sguaiatamente:
Il Pazzerello cerca Esmeraldina,
la prediletta fanciullina
del suo cuoricino!
Esmeralda cerca il Pazzerello,
l’amato di lei follemente innamorato,
l’asino di lei incapricciato,
il suo caprone di merda imbrattato.
In questo ed anche in altro modo i ragazzi lo mortificavano, gli sputavano addosso e lo ingiuriavano inviperiti.
Alla fine una mattina il Pazzerello si rese conto di dover fare qualcosa. Decise allora che non si sarebbe più avvicinato a nessuna casa, che si sarebbe ritirato invece nella solitudine, lontano dagli uomini. Là si sarebbe messo a giacere, affidandosi completamente alla terra e là sarebbe morto. Decise così, con grande fermezza, e subito capì dove fosse quel luogo sicuro e lontano dalle risa schernitrici del mondo e dove avrebbe portato a termine il suo lungo, lungo cammino.
9
Il Pazzerello si rifugiò in una grotta che aveva una strana forma; a dire il vero era una grotta solo a metà, era cioè come se l’altra metà si fosse un tempo staccata e fosse precipitata a valle. La parte rimasta era aperta e nel corso dei millenni aveva assunto una forma tondeggiante. Probabilmente ciò era stato provocato dal grande fiume, che con i suoi vortici aveva levigato le pietre, oppure ciò era dovuto al mare che, per secoli, aveva scagliato i suoi flutti contro queste rupi. Ora la grotta assomigliava ad un gigantesco orecchio, posto in alto, al di sopra di quel paese. Tutto in questa specie di orecchio era curvato dolcemente, non c’erano in nessuna parte spigoli taglienti o punte di pietra.
Il Pazzerello si trascinò nell’angolo più remoto, che però era ancora accessibile al sole, allorché, dalla parte occidentale, lo illuminava con i suoi raggi. Qui il poveretto si distese per terra, vi si raggomitolò, fermamente deciso a morire. Il cagnolino, immensamente triste anche lui, gli si accovacciò vicino. Intuiva infatti ciò che stava succedendo al suo amico.
L’orecchio di pietra captava suoni e voci. Ascoltava la terra e il cielo e allorquando il Pazzerello si addormentò in quella specie di spirale, gli parve, in una sola notte, di sentire e di intravedere un’infinità di cose.
Sul dorso di un gigantesco serpente che si contorceva veloce, si susseguirono dinanzi al Pazzerello scene ed eventi misteriosi:
Dapprima egli scorse il suo cuore, dal quale ogni cosa proveniva e vi ritornava e in cui l’inizio e la fine erano congiunti.
Il Pazzerello, proprio lui in persona, si trasfigurava poi in una mago giallo che con grande abilità faceva giochi di prestigio con uova alate, giocherellava con monete d’argento, toccava con la spada una tovaglia nera, scacciava col suo bastone una scimmia ciarliera e raccoglieva in un calice la rugiada. Sembrava libero, ma non lo era, con una corda che gli cingeva una caviglia, era infatti legato a qualcosa di invisibile.
Dietro di lui sedeva una dea trasparente di particolare bellezza. In una rete ben bene aperta catturava segreti che arrivavano da un paese lontano e con un agile arco tirava frecce verso bersagli nebulosi.
Questi si trasformarono in una tenda color carminio che sollevandosi fece apparire un re color rosso fuoco e una regina rosa pallido e verde. Sedevano dignitosi sui loro troni e governavano i loro popoli, lei con dolcezza, lui invece con rigore.
Davanti a loro c’era un sacerdote in una lunga veste rossiccia, con una grande chiave in mano. Costui si volse verso il Pazzerello sussurrandogli. «Tu sei mio figlio.» Poi però correggendosi subito, disse: «Beh, come se tu fossi mio figlio.»
Al di sopra del sacerdote qualcosa di grande, simile ad una montagna rosata, stendeva le braccia e benediceva due innamorati che gli stavano davanti. Gli innamorati erano una regina bianca e un re negro.
All’improvviso sopraggiunse una carrozza rossa, nella quale sedeva un cavaliere con un’armatura di ferro e con uno scudo splendente; la carrozza era tirata da quattro strani esseri.
Sulla parte più alta del corpo del serpente in movimento e ininterrottamente ondeggiante, apparve un giudice severo con una sciabola tagliente e con una bilancia molto sensibile e sempre precisa.
Dietro alla spalla destra del giudice si poteva vedere un monaco in una veste color carminio, che vagava nei campi e cercava la luce. La cercava, pur tenendola in mano, ma senza rendersene conto. Dalla sua bisaccia cadevano a terra dei semi che si perdevano poi nel terreno. Andava vagando in un campo di grano e dietro di lui correvano cani con tre teste. Pareva che lo inseguissero. Davanti a lui, nell’azzurro, correva un uovo bianco, cinto da un serpente grigio.
Al di sopra del monaco in cerca di luce, rotolava attraverso tutta la terra una enorme ruota, sulla quale qualcosa si arrampicava di continuo e dalla quale senza sosta qualcosa cadeva.
Dalla ruota si svincolò Esmeralda, la donna bella e passionale che aveva sedotto e reso infelice il Pazzerello. Cavalcava un leone in fiamme e calpestava gli infelici che le capitavano sotto.
Uno di questi disgraziati pendeva con la testa all’ingiù, mentre sotto di lui si dimenava qualcosa di nero e di minaccioso.
Dal gomitolo che si contorceva sotto quel poveraccio appeso, sgusciò furtiva la scheletrica morte, con la sua falce fatta di luce sfolgorante e dura come l’acciaio. Si mise a ballare in modo selvaggio, osceno e sfrenato. Nella rete attaccata alle sue ossa acchiappava tutto ciò che camminava, strisciava o volava.
Da questa rete sfuggì una donna gigantesca che era metà nera e metà bianca. Con uno stecco dava fuoco all’acqua che ardeva come le foglie secche. Un leone e un’aquila la bevevano insieme.
Da dietro il recipiente, nel quale l’acqua si trasformava in fiamme, arrivò di corsa un caprone dalle corna a spirale, grandi come querce. Strizzava l’unico occhio che aveva in mezzo alla fronte. Acchiappava i piccoli uomini impotenti entro qualcosa di viscido e di carnoso e si trastullava con loro beffandoli.
In seguito tutto ciò cadeva in rovina, si sfasciava e si inabissava. Un mostro rosso, simile al muso di un pesce, vomitava fuoco e su tutto questo orrore splendeva dal cielo, senza pietà, un occhio insanguinato.
Sopra tutto questo sfacelo provocato dal terremoto, un essere simile ad una fata travasava stelle da una coppa a un’altra, raccogliendo la polvere cosmica nei suoi lunghi capelli.
Da questa polvere nasceva la luna, dalla quale colava verso la terra una sottile striscia di sangue e di acqua malsana. I cani ululavano in modo lugubre e un piccolo scarabeo, facendo sforzi enormi, cercava di far rotolare il globo solare al di là del margine delle tenebre.
Quando ciò gli riuscì, il sole apparve in tutto il suo splendore, sotto i suoi raggi due angioletti ballavano il girotondo vicino ad una verde collina.
Danzavano di continuo e danzando s’inoltrarono nelle immensità stellari; là si trasformarono in un fanciullo vecchio di miliardi di anni. Questi raccoglieva nelle palme delle sue mani le costellazioni e le versava poi sulla terra come sabbia.
L’occhio divino si dischiuse e il Pazzerello potè fissare lo sguardo nelle profondità di tutto il creato; là dentro, nella pupilla a spirale, scivolava una dea ignuda, quella che, secondo lui, aveva visto all’inizio, così gli pareva, ma non era la stessa. L’aquila, il toro, il leone e lui, il Pazzerello, respiravano le costellazioni, come fossero fresca aria di primavera.
Così sognò tutta la notte, fino al mattino. E poi anche durante il giorno, fino al momento in cui lo raggiunsero i raggi del tardo sole pomeridiano. Allora qualcosa parlò vicino al suo orecchio con tono canzonatorio:
«Ah, così dunque, ce ne staremo qui distesi a sognare e a fantasticare, come se niente fosse, e aspetteremo qui di morire, non è così?»
Il Pazzerello non si mosse, il cagnolino invece drizzò le orecchie. Quel tale essere riprese a parlare:
«Naturalmente la cosa più facile per te è sdraiarti e aspettare la morte. Certo, cos’altro saresti capace di fare? Però dovresti vergognartene, smidollato moccioso che non sei altro!»
Allora il Pazzerello si mosse, sollevò il capo e scorse davanti ai suoi occhi una lucertola verde.
«Sì, sì, sono proprio io! Beh, salve e buongiorno! Vuoi che ti dica cosa c’è in te che non va? Lo vuoi?»
Il Pazzerello la guardava in silenzio.
«Sai perché sei crollato come un imbecille? Vuoi che te lo spieghi?»
Il Pazzerello si sollevò. Si mise a sedere e qualcosa si mosse impercettibilmente nei suoi occhi tristi, non riusciva però ancora a sorridere.
«Tutto ciò è successo perché hai buttato fuori casa il tuo cagnolino, chiudendolo fuori dalla porta. Inoltre hai dimenticato che ci sono amori di vario genere e che fra questi per te uno solo è quello giusto. Lo sai bene: ogni persona lo concepisce a modo suo, figlio mio, ti ricordi?»
Il Pazzerello annuì pieno di tristezza. Tentò di sorridere, senza riuscirci. Avrebbe voluto farlo, ma avrebbe voluto essere nuovamente allegro, ma non ne era capace. In lui niente si mosse, nessun sentimento allargò il suo cuore, nulla sobbalzò in lui con leggerezza, nulla volò in alto. In lui non c’era più la scintilla che di solito accende la fiamma della gioia e non c’era neppure lo sfavillio dell’allegria.
«Chiudi gli occhi, ti farò vedere e anche sentire qualcosa,» disse la lucertola.
Il Pazzerello chiuse gli occhi e vide la brutta principessina Esmeralda. Avendo sentito cosa gli era successo, lo cercava per aiutarlo. Andava da un paese all’altro, chiedendo dappertutto sue notizie. Nessuno sapeva dove fosse scomparso. Non avendolo trovato in alcun luogo, divenne sempre più triste. Il caso la portò un giorno fino alla roccia posta davanti alla torre stregata. Si arrampicò su quella grande rupe, si sedette e suonò a lungo il suo zufolo avuto in dono dal Pazzerello. La sua musica era malinconica e rese ancora più addolorata la principessina. Le lacrime le scendevano fin sul seno.
Ascoltando lo zufolo, il Pazzerello avrebbe voluto rallegrarsi, poiché la principessina aveva fatto notevoli progressi nell’arte di suonare questo semplice strumento; suonava ormai con vera maestria. Avrebbe voluto compiacersi di ciò, ma al posto della gioia, sentì solo dolore e un gran peso nel petto.
«E ora, guarda verso il cielo, ma non aprire gli occhi,» gli sussurrò la lucertola.
Il Pazzerello sollevò gli occhi con le palpebre chiuse e scorse un grande uccello nero al di sopra della torre coperta da rovi. Roteava là sopra gracchiando e sbeffeggiando la musica della principessina. In quel momento però comparve nel cielo un altro uccello che non era nero, ma bianco come la neve. Per un po’ i due uccelli volteggiarono tranquillamente, poi all’improvviso l’uccello bianco si avventò contro quello nero e iniziò una terribile lotta. Con i loro becchi taglienti si ferivano a vicenda e con i loro ancora più aguzzi artigli ghermivano l’un l’altro. Le penne bianche e nere cadevano come in un vortice sulla terra.
Mentre nel cielo si svolgeva quel terribile combattimento, sotto invece la principessina continuava a suonare lo zufolo, ignorando quello che accadeva sopra di lei. Guardò in alto solo allorché alcune penne le caddero in grembo.
Proprio allora l’uccelllo bianco riuscì a strappare a quello nero la fiammella rubata al Pazzerello e si allontanò dal campo di battaglia con una rapida discesa. L’uccello nero lo inseguì, ma non fu abbastanza veloce, essendo ferito all’ala sinistra. Cominciò quindi a cadere con giri rotti, spezzati.