Dai Hlistovi il vecchio Janez incuneò accuratamente un tronco di faggio e mise in moto la segatrice. Il carrello cominciò ad avvicinarsi con moto uniforme verso la lama. Egli diede un’occhiata al mucchio di tronchi che la neve aveva ricoperto già la sera prima. Venne ancora più vicino, voltò col piccone un grosso tronco di faggio e lo fece rotolare verso la sega. Poi si tirò su fino alle orecchie il bavero della pelliccia e passò oltre. Il candore della neve illuminava impercettibilmente tutto intorno e benché fosse buio si vedeva la strada fino alla fattoria dei Mehlinovi ed anche più in là. Scrutò il cielo nero e pensò: «Nevicherà ancora.» All’improvviso, più che sentire, ebbe la sensazione che un lieve soffio di vento provenisse dal retro della casa. «Accidenti, non promette mica bene, domattina Grgur dovrebbe portar via le assi e ci saranno difficoltà nel trasporto, se la neve si sarà ammucchiata sulla strada.»
La segheria era appoggiata ad angolo retto sulla casa. Alle finestre dell’osteria c’erano delle tendine e la luce filtrava solo dai lati. La strada era coperta di neve. Janez stava già pensando di ritornare alla segatrice, quando sentì cantare. Si fermò pensando: «Speriamo che le cose non si mettano a male. Il mese scorso Muse dovette pagare a caro prezzo la sua euforia giovanile... eh, sì... e il figlio maggiore degli Skudovi non è ancora ritornato dal carcere. Chissà perché li disturba in tal maniera il nostro canto! Dov’è ormai il tempo in cui si facevano serenate alle ragazze senza che nessuno ne fosse infastidito... Da quando si sono intrufolati tra di noi, sembra che la gente debba stare sempre all’erta per paura di commettere qualche trasgressione. Si stava davvero meglio sotto Cecco Beppe... »
Tese ancora per un attimo l’orecchio e diede un’occhiata verso la casa dei Ličanovi. Alla luce del fanale scorse tre figure nere e un’idea balenò nella sua mente: «La pattuglia!»
Affondando i piedi nella neve si diresse in fretta verso la porta dell’osteria. Entrò e incominciò a fare cenni alla padrona che stava mescendo il vino dietro al banco. Poi urlò: «I carabinieri!»
L’ostessa trasalì e disse gridando: «Fate silenzio, per l’amor di Dio!» La canzone Splende la luna restò sospesa a mezz’aria e in un attimo il coro si trasformò in una tranquilla tavolata. Qualcuno prese dalla credenza le carte, le distribuì e il gioco del «marjaš» ebbe inizio.
La padrona scostò leggermente le tendine e attraverso la fessura diede uno sguardo alla strada. «Dio mio, vengono proprio qui!» sospirò allarmata. Janez si avvicinò al banco e le disse:
«Non preoccuparti, non hanno sentito niente!»
«Hai fatto bene ad avvertirmi,» gli rispose, «ho sempre paura e guai se non ci aiutassimo tra di noi!»
«Certo, certo! E addio, il lavoro mi attende.»
Poco dopo si udirono all’esterno passi di persone che battevano i piedi per scuotersi la neve dalle scarpe. Tutti tacquero. La porta scricchiolò e il freddo irruppe nel locale. I carabinieri entrarono. «Buona sera! » disse il capo della pattuglia; si soffermò per un istante accanto alla tavolata e squadrando tutti ad uno ad uno aggiunse:«Perché così silenziosi? Mi è parso di sentir cantare, o mi sbaglio?»
La padrona fece un gesto con la mano... «Ne, ne, niente canto, tam zunaj, fuori pijanec ubriaco cantare...Boste čaja, tè? Già cucinato.»
Due carabinieri si sedettero sulla panca e appoggiarono al muro i loro fucili. Quello che sembrava più giovane disse: «Fa freddo fuori!» Il capo invece, fatti alcuni passi nel locale, si fermò di nuovo accanto al tavolo e disse indicando Bine Petehov: «Tu sei già stato da noi, ti conosco bene. Ti è passata la voglia di cantare, o mi sbaglio?»
Bine, stringendosi nelle spalle, disse: «Non abbiamo cantato.»
«Lo spero bene, sennò ti aspetta la cella. Lo sai, non è vero?»
L’ostessa versò il tè bollente nelle tazzine. «Signori, bevere, dobro je, per freddo...»
I carabinieri si scambiarono un’occhiata e poi, avendo dato il capo un cenno di assenso, bevettero.
«Buono, buono,» disse il carabiniere più giovane, «Un tè così, lo bevevo solo dalla mamma.»
Gli uomini attorno al tavolo trassero un sospiro di sollievo; Grščetov Tone depose le carte e avvicinandosi al banco disse: «Questa notte ci sarà la bora, meglio stare al caldo.»
Il capo che aveva già sorbito a metà il tè, si volse verso di lui:
«Già, già, la conosco la vostra bora, però noi, non ci ferma nemmeno lei, il servizio non conosce tregua...»
«Lo so, sono stato militare ad Arezzo, bella città.»
«Ah, sí?...»
Tone rimase per un attimo in silenzio e poi con aria ingenua chiese:
«Mi spieghi, signor appuntato, perché ad Arezzo potevamo cantare in sloveno in osteria e nessuno si lamentava, anzi, ci pagavano da bere. In un paese vicino abbiamo cantato inni sacri perfino in chiesa.»
«Mi sembri intelligente, dovresti capire da solo. Ad Arezzo la vostra lingua o dialetto che sia è folklore, qui invece rappresenta una macchia sull’italianità di queste terre che sono state da sempre italiane...»
«Scusi, queste terre erano nell’ambito dell’Austria, mai sotto l’Italia, se escludiamo la Roma antica.»
«Ah, mi sembra che te ne intenda di storia, e vada per Roma, noi siamo i suoi eredi.»
«Già, però secondo questa logica vi appartiene anche l’Inghilterra. E poi non so cosa direbbero i discendenti di Attila che è arrivato fino a Roma.»
«Cosa c’entrano gli inglesi...»
«Giulio Cesare occupò anche parte dell’Inghilterra...»
«Cosa dici? Vuoi prendermi in giro?»
«Dio me ne guardi!»
Il sottufficiale corrugò la fronte, assumendo un’espressione severa.
«Mi pare che ti dovremo tenere d’occhio, sei troppo sveglio... Inghilterra o no, qui è terra italiana e tale resterà in eterno. Perciò sforzatevi di dimenticare le vostre radici barbare. E con questo ho finito. Andiamo, ragazzi!»
Aperta la porta, il vento penetrò soffiando nel locale. I carabinieri si strinsero nelle spalle, incamminandosi verso Dulanji kraj. La padrona trasse un sospiro di sollievo, prese da sotto il banco una bottiglia di slivoviz e ne versò un bicchierino ai giovani. «Bevete sul mio conto. E a te, Tone, doppia dose. Non so di preciso che storielle gli stessi raccontando, comunque sembra che tu gli abbia detto il fatto suo.»
Incontrando Andrej nel cortile, la padrona di casa disse:
«Signor Andrej, mi dispiace, però mia figlia ritornerà da Trieste con la sua famiglia. Arriveranno fra quindici giorni. Si cerchi, per piacere, un’altra abitazione. Lei ha, per fortuna, una bellissima casa a Bistrica.»
«Ha detto fra due settimane?»
«Sì.»
«Bene, cercherò di provvedere.»
Arrivato in camera, trovò Polda a letto. Si sedette accanto a lei.
«Te lo ha detto? »
Volgendosi verso di lui, fece un cenno affermativo. Andrej le asciugò le lacrime.
«Non preoccuparti. Vedrai che troverò qualcosa.»
Durante la notte Polda sobbalzò di nuovo, respirava affannosamente comprimendosi il petto con le mani. Andrej si svegliò e le afferrò le braccia.
«Non è nulla, ti sono vicino, respira profondamente...»
Di corsa andò a prenderle un bicchiere d’acqua. Polda ne prese un sorso, scese a fatica dal letto e andò verso la finestra. Fuori stava già albeggiando. Andrej la seguì e l’abbracciò.
«Non dobbiamo cedere,» sussurrò, «non servirebbe a nulla.»
Polda si girò e gli accarezzò il viso.«Andrej, ho riflettuto a lungo, non potrei assolutamente vivere senza di te.»
Egli la fissò stupito e le disse: «Non te ne andrai in nessun luogo senza di me.»
Nei giorni seguenti il postino Janše si recò anche da famiglie che di solito non ricevevano posta. I ragazzi del villaggio, accorgendosi dove era diretto, correvano in anticipo ad avvisare i familiari.
In municipio era stata compilata l’ordinanza per la consegna dei cavalli. In parecchie fattorie era rimasto un solo animale da lavoro. Nelle osterie non c’era più la solita animazione. Gli uomini si chiedevano a chi di loro sarebbe toccato partire la prossima volta. Le donne cercavano sollievo alle loro pene in chiesa, sperando che l’Onnipotente le avrebbe preservate dal peggiore dei mali.
Andrej, che aveva seguito fino a quel momento gli avvenimenti con una certa calma, all’improvviso si sentì turbato profondamente. Si rese conto con estrema chiarezza che per lui non c’era via d’uscita.
Durante la notte non riuscì a lungo a chiudere occhio.
Sogni angosciosi. Lui solo in mezzo ad una bufera che sradicava alberi, lui ancora che sprofondava in un abisso con caduta precipitosa, sofferenze terribili in mezzo a fiamme vorticose. Polda balzò su a sedere. Turbata lo scosse.
«Andrej!» esclamò. «Svegliati! Che cos’hai?»
Madido di sudore la fissò a lungo con occhi sbarrati.
«Gridavi...»
«Sogni...»
Gli asciugò la fronte con il lenzuolo, andando poi a rifugiarsi tra le sue braccia.
«Amore mio, sono stanca... Quando te ne andrai, sarà per me la fine di tutto...»
«Non me ne andrò in nessun luogo senza di te...»
A lungo non riuscirono ad addormentarsi.
Li risvegliarono dei colpi alla porta. Il sole aveva già illuminato con i suoi raggi tutto il cortile. Andrej scosse la testa, infilò i calzoni e scese in fretta le scale.
«Buongiorno, Andrej,» gli disse Matija, un servo di suo padre, «il tuo signor padre ha ordinato...»
«Cosa c’è?»
«Non lo so. È venuto il messo municipale e tuo padre ha detto che devi andare al Municipio.»
«Sai perché?»
«Non ha detto nulla...»
«Tu però lo sai lo stesso, dimmelo!»
»Pare che stiano nuovamente chiamando alle armi i giovani... Ora devo andare, ho da sbrigare altri incarichi.»
Chinò il capo e se ne andò.
Polda uscì dalla camera.
«Chi era?»
«Matija. Mio padre desidera vedermi...»
Un’ombra oscura gli coprì il volto. Polda trasalì.
«Non ha detto perché?»
Andrej si strinse nelle spalle.
«Devo andare al Municipio.»
«Santo cielo!» disse gemendo la ragazza.
«Chiamano anche te!»
«Non lo so, anche Matija non sapeva... Vado subito a vedere.»
Si vestì in fretta e scese le scale scricchiolanti.
«Forse non sarà nulla,» esclamò sulla soglia di casa.
Polda si lasciò andare sulla panca e si coprì il viso con le mani.
«È la fine,» disse con un lamento,«la fine di tutto...»?
All’improvviso avvertì un malessere che le saliva alla gola. Afferrò un catino e cominciò a vomitare. Le sue viscere erano sconvolte da tremiti. Con le mani premette il ventre e ad un tratto sentì un debole scalciare. Piena di stupore si accasciò sulla sedia.
«O, povera me, anche tu ci sei!» sospirò. Dopo essersi calmata, si stese sul letto, fissando il soffitto. Ben presto le sue ansie si attenuarono, celandosi chissà dove. Cominciò ad osservare una grande macchia che l’acqua, proveniente da una fessura del tetto, aveva disegnato non si sa quando. Uno stormo di passeri scese in rapido volo sul melo sottostante la finestra, cinguettando vivacemente.
«Da dove mai sono arrivati?» pensò la donna.
Si alzò, prese il paiolo di rame e ne tolse le croste secche della polenta . Aprì la finestra e gettò le briciole sul davanzale. Due uccellini, vincendo la loro titubanza, vennero a mangiare.
«Cosa importa a loro se c’è o non c’è la guerra?» disse pensierosa.
Al suo rilassamento subentrò una completa apatia. Rimase seduta per un po’ sulla panca, poi si vestì e si avviò verso il retro della casa, passando davanti al frutteto recintato da cespugli. Per un breve tempo seguì la strada rotabile che i proprietari di Trnovo usavano per trasportare il fieno dalle Gure, poi voltò a sinistra attraversando un prato e una conca coperta da folte erbacce. La gonna le si impigliò tra i rami di un rovo, strappandosi sull’orlo. Senza nemmeno accorgersene, la donna si incamminò verso la parte più ripida del monte, alla cui base il piccolo Tonček pascolava le pecore. Appena la vide, le gridò:
«Ehi, tu, dove ti stai arrampicando? Lassù ci sono le vipere!»
La donna non si voltò, passo dopo passo stava salendo verso la cima del monte Strašca. La gente diceva che là in alto c’erano resti di fortificazioni, erette contro gli assalti dei turchi.
Giunta in cima si sedette su una roccia con le gambe incrociate, lasciando vagare il suo sguardo in lontananza. Attrassero la sua attenzione le bianche nuvolette che si stavano ammassando nel cielo sopra i Brkini. Una volta le chiamavano pecorelle della Madonna. Sentì all’improvviso il desiderio di contarle. Incominciò da sinistra. Dopo aver contato la prima fila di nuvole all’orizzonte, il quadro mutò e dovette contare da capo.
Davanti alla sede dei Vigili del fuoco Andrej scorse Lojze Drmulj che usciva dal Municipio.
«Anche tu?» disse incontrando Andrej.
«Non lo so, mi chiamano... Forse...»
»Senti, ti aspetto, concluderai presto e poi andremo a bere all’osteria di Marinko. Sbrigati!»
Nell’ ufficio il segretario gli consegnò senza dir parola la cartolina precetto. Andrej le dette una rapida occhiata.
«Fra tre giorni,» disse ad alta voce.
Il segretario lo sbirciò al di sopra degli occhiali.
«Lei non è il solo... È chiamato alle armi anche mio figlio. Partirete insieme.»
Sotto, in strada, gli venne incontro Lojzo e lo prese sotto braccio.
«Lo so già... Anche tu... Andiamo a bere.»
Nell’osteria c’era solo la padrona; era in piedi vicino alla finestra e si stava asciugando gli occhi con il fazzoletto. Vedendoli entrare trasalì e nascose il fazzoletto.
«Sapete, il nostro Janez è stato chiamato... Cosa prendete?»
«Ci dia un litro di vino bianco. Chissà se ne berremo ancora! Anche noi partiamo.»
I due giovani si sedettero. Lojzo versò il vino e disse:
«Alla nostra salute, fino all’ultima goccia!»
Andrej si accorse ben presto che il vino gli dava alla testa. Jeronček arrivò in osteria trascinando i piedi e con la fisarmonica in spalla.
«Ehi, ragazzi, so già cosa vi tormenta. Pagate da bere?»
Lojzo versò il vino. Jeronček ne prese un bicchiere, poi un altro. Dopo si mise la fisarmonica a tracolla e attaccò la famosa canzone
«Va per strada un reggimento...»
«Ancora un litro,» gridò Lojzo rivolto verso la dispensa, dov’era scomparsa la padrona.
Dopo un’ora tutti e tre erano ubriachi fradici. Andrej non ricordava nemmeno perché si trovasse là. All’improvviso però il ricordo riaffiorò e disse:
«Vado, vado...»
«Non c’è fretta,» disse Lojzo cercando di trattenerlo, «ancora un bicchiere...»
«No, no... devo, devo...»
Quando si alzò le pareti cominciarono a ballargli intorno. Si aggrappò al tavolo. Con cautela passò davanti alla casa dei Milostnik e lungo il muro dei Hodnik. Si fermò sul ponte sopra il fiume e si appoggiò al parapetto di pietra. Si sporse fissando lo sguardo sulla rapida corrente. All’improvviso gli parve che l’acqua fosse immobile e che lui invece corresse.
«Salve, Andrej,» udì una voce dietro di sé, «stai contando i pesci?»
Suo cugino Mondetov Frane lo battè sulla spalla, Andrej si volse verso di lui.
«Ah, sei tu! Sai, ho bevuto un po’...»
«Stai andando a Guranji kraj? Oggi preparano la torta dai Ličanovi, daranno in sposa Vera. Vieni, ci divertiremo.»
«No, no, devo andare a Trnovo, Polda mi aspetta. Mi hanno chiamato.»
«Di già? Prima di partire, fatti vedere, mio padre ne sarà felice. Ha appena finito il recinto per la tomba di Janez Bilc. Sarà contento di vederti. Fra tutti i suoi nipoti sei quello che stima maggiormente. Anche la mamma ti vedrà con piacere.»
«Va bene, va bene. Verrò.»
Frane se ne andò per i fatti suoi, mentre Andrej si irrigidì, costringendosi a camminare eretto. Vicino alla chiesa di Bistrica prese il sentiero che attraversava il monte. La sua mente si era ormai schiarita, però la testa gli faceva molto male. Arrivato alla casa di Pečko, l’offuscamento dovuto al vino era sparito quasi del tutto.
«Come devo dirglielo?», pensò preoccupato.
La scala scricchiolò. Andrej aprì la porta. Polda non era in casa. La cucina economica era fredda.
«Poldaa...» chiamò.
Si precipitò in camera. Il letto era disfatto. Corse verso l’entrata principale. La padrona stava facendo la cernita delle patate.
«Sa dov’è andata la mia... Polda?»
«L’ho vista questa mattina dalla finestra, è passata davanti al frutteto. Non è ancora ritornata?»
Andrej se ne andò in gran fretta dietro alla casa, proseguendo la salita sulla carreggiata. Si fermò su una collinetta, guardandosi intorno e chiamando spesso:
«Poldaa!»
Nessuna risposta. Continuò a salire e a chiamare parecchie volte. Congestionato e madido di sudore oltrepassò il versante nel punto in cui iniziavano le Gure. Si girava e rigirava esaminando con lo sguardo ogni roccia, ogni cespuglio, ogni albero.
«Santo cielo, ma dov’è andata?» disse fra sé.
Proseguì lesto il cammino. In una piccola dolina scorse un gregge di pecore. Sempre correndo scese più in basso. Il cane del pastore, vicino al gregge, gli corse incontro abbaiando. Andrej si fermò. Il cane ammutolì e gli si avvicinò annusandolo. Il pastore, Grgurjev Tonček, scese dai rami di un melo.
«Non le farà niente, è un bravo custode.»
«Hai visto qualche ragazza da queste parti?»
«Oh, sì, c’era una laggiù, in cima alla Strašca. Non so se sia ancora là.»
«Grazie,» disse Andrej e di corsa attraversò il prato. Poi abbandonò la rotabile inerpicandosi sul versante che si estendeva verso la dolina. Nella corsa, cercò di evitare sassi e rocce che sporgevano dal suolo, girò attorno a folti cespugli, attraversò in gran fretta un boschetto di pini, arrivando ben presto ad una radura. Da lì si apriva la vista sulla dolina Velika voda. Si fermò per un istante. Vide la ragazza in cima all’altura. Era seduta su una roccia.
«Poldaa, chiamò.»
La giovane non si voltò. Le arrivò vicino ansante, s’inginocchiò e la strinse fra le braccia. Lo sguardo di lei era fisso nel vuoto. Con entrambe le mani le accarezzò le guance.
«Cara, andiamo a casa. Su, su, Polda, svegliati! Andiamo a casa.»
«A casa? Io ero a casa...»
Andrej sentì in gola un nodo che lo soffocava. La sollevò cingendole la vita. Lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Con prudenza le fece attraversare la conca. Entrarono in casa dalla porta posteriore. Nel corridoio si imbatterono nella padrona.
«Avete fatto una passeggiata?», domandò, poi stringendosi nelle spalle e stropicciandosi le mani, continuò: «Mi dispiace terribilmente, ma questa sera mia figlia ritorna con i suoi; hanno richiamato suo marito. Avete già trovato un nuovo alloggio? Questa notte li farò dormire in cucina, domani però dovreste sgomberare. Andate da vostro padre, so che potete farlo...»
«Bene, bene», disse Andrej. Accompagnò Polda su per le scale. In cucina la fece sedere su una panca, si mise davanti a lei, la prese per le spalle e la scosse.
«Svegliati, siamo ancora insieme e lo saremo fino alla fine. Capisci?»
«Sì, fino alla fine... Certo.»
Lei si alzò ed ebbe un sussulto.«Santo cielo, devo cucinare le patate!»
«Lascia stare! Accendo io il fuoco e preparo le uova fritte. Tu, distenditi.»
«No, no, farò io da sola... E cucinerò pure le patate.»
Andrej cercò il suo coltello da tasca e cominciò a tagliare una sottile tavoletta di abete per poter accendere più facilmente il fuoco.
«Sì, la tavoletta e... »
Divenne irrequieto, si fermò davanti alla cucina economica, prendendosi il capo tra le mani. Polda lo guardò.
«Lascia stare, farò da sola.»
Andrej andò in camera stringendosi la testa tra le mani. Sentì che il cervello gli martellava, come se un fabbro percuotesse con una mazza un ferro rovente.
«Il fabbro«, pensò, «devo andare dallo zio.»
Polda accese il fuoco e mise sulla piastra il pentolino con le patate. Era calma.
«Senti, vado dai Mundetovi, lo zio vorrebbe vedermi. Quando le patate saranno cotte, sarò di ritorno. Aspettami...»
«Va’ pure», rispose lei con indifferenza. «Certo che ti aspetterò...»
Giunto dai Mundetovi, la zia gli disse:
«Lo zio non è in casa, è andato ad una riunione dei pompieri. Desideri qualcosa?»
«Sono stato richiamato e vorrei salutarvi tutti. Potrei avere anche un po’ di carbone?»
«A che cosa ti serve?»
«Oh, serve a Polda per il ferro da stiro...»
«Va’ nell’officina e prendilo. Eccoti un sacchetto! È abbastanza grande?»
«Sì, sì,» rispose. Prese del carbone di legna e si congedò.
«Verrò a trovarvi domani. Tanti saluti allo zio e a tutti gli altri...»
Il pranzo era pronto. Polda lo mise in tavola. Andrej notò la sua calma. Lei prese dall’armadio una bottiglia di vino.
«Da dove viene?» le chiese.
«Ieri sono andata in osteria.»
Versò il vino fissando Andrej negli occhi.
«Al nostro eterno amore!»
I bicchieri tintinnarono.
«All’amore eterno,» rispose lui.
Poi le si avvicinò e l’abbracciò.
«Ho ricevuto la cartolina di precetto... Dovrei partire dopodomani...»
«Lo so, l’avevo intuito...e non te ne andrai da solo, ce ne andremo insieme...»
«Ce ne andremo insieme,» le sussurrò all’orecchio, stringendola a sé. Il bacio durò a lungo e Polda ebbe la sensazione di essere al settimo cielo.
Prima che si facesse notte, Andrej andò dalla padrona di casa.
«Ecco qui il denaro! Questa sera ce ne andremo. Domani manderò qualcuno a prendere le nostre cose. Grazie.»
«Ha trovato l’alloggio?» chiese curiosa la padrona.
«Sì, sì.»
Fuori si era fatto buio. Il cielo era coperto da nuvole nere. Polda e Andrej si abbracciarono ancora una volta.
«È l’ora, andiamo,» disse Andrej prendendo in mano una valigia.
In strada avevano già acceso i rari lampioni. Le vie erano quasi deserte, soltanto davanti all’osteria Novi svet un vetturale stava parlando sulla soglia con l’oste. Ma poi si accommiatò, si arrampicò sulla vettura e, tirando le redini, mise in moto il cavallo. All’orizzonte cominciò a lampeggiare e dopo un po’ si udì un cupo tuono.
Quando Andrej e Polda giunsero sul ponte, cominciarono a cadere le prime gocce e poi piovve a dirotto. Si affrettarono verso l’ingresso dell’albergo, dove rimasero nella penombra.
«Buona sera,» disse Andrej.
Da una porta laterale si affacciò la padrona dell’albergo.
«Buona sera, solo un momento...»
Si appogggiò sul bancone e accese la lampada a petrolio.
«Così si vedrà meglio. Buona sera! Ah, siete voi. In che cosa posso servirvi?»
«Vorremmo pernottare qui alcuni giorni, se è possibile,» disse Andrej un po’ titubante, «poi andremo in un altro alloggio.»
«Beh, veramente non potrei... ma, dato che vi conosco... Aspettate un attimo.»
Rovistò fra le chiavi.
«Siete arrivati proprio all’ultimo momento,» aggiunse, «fuori diluvia. Saliamo sopra, è la terza stanza. Vi faccio luce.»
Alzò la lampada a petrolio e li accompagnò su per la scala di legno. Poi aprì la stanza ed entrò.
«Venite, il lume è sul tavolo e i fiammiferi pure. Beh, vi accenderò io. Sotto scorre il fiume, spero che il suo sciacquío non vi disturbi.»
«No, no,» rispose Andrej.
«Vorreste forse mangiare o bere qualcosa?»
«No, grazie.»
«Allora, vi auguro la buonanotte,» disse l’albergatrice.
Andrej girò la chiave nella toppa.
Polda si stese sul letto senza spogliarsi. I suoi lunghi capelli si sparsero sul cuscino, mentre le gambe le pendevano di lato. Andrej si sedette dall’altra parte del letto. Pose la testa accanto al suo volto, l’accarezzò e la baciò.
«Mi sento tanto bene,» sussurrò lei.
Con le braccia gli cinse il collo e lo strinse a sé.
Egli si sciolse dall’abbraccio e si alzò. Grosse gocce battevano alla finestra che dava sulla strada. Andrej si avvicinò all’altra finestra, l’aprí e si appoggiò sul davanzale. Sotto, accanto al muro dell’albergo, scorreva il fiume. Alcuni metri più in là girava la ruota della segheria di Strojbar, la lama d’acciaio penetrava nel tronco e il suono stridente della segatrice si fondeva con il gorgogliare dell’acqua. Andrej fissava le tenebre squarciate ogni tanto dai lampi. Polda si alzò, gli si avvicinò e si appoggiò a lui.
«Caro, sono tanto felice...»
Egli le cinse le spalle e le disse:
«Senti il dolce canto della mia casa? Mia madre mi raccontava che alla mia nascita la musica della ruota le alleviava i dolori del parto.»
Polda si appoggiò alla spalla di lui.
«È il destino,» continuò Andrej, «sono nato vicino alla ruota e...»
La voce gli morì in gola.
«E moriremo vicino alla ruota,» concluse lei la frase abbracciandolo con forza.
Ritornarono accanto al letto. Polda si stese di traverso con le braccia aperte. Andrej chiuse bene la finestra e si sedette sul pavimento, vicino alla valigia. Ne estrasse un grande tegame, il carbone e una tavoletta di legno di abete. Con il coltellino preparò un mucchietto di sottili bastoncini. Lavorava adagio, quasi fosse un rito. Mise nel recipiente la carta stropicciata, vi accatastò sopra con cura i pezzetti di legno, poi il carbone, finché il tegame non fu colmo. Accese quindi il fuoco, fissando la fiamma. Vi soffiò sopra tanto, finché il carbone non si infiammò.
«Hai già fatto?» domandò Polda, «vieni accanto a me.»
Lui depose il coltello sul tavolino da notte, prese Polda per le braccia e l’attrasse a sé. Lei chiuse gli occhi. Andrej cominciò a sbottonarle la camicetta. Le toglieva di dosso un capo alla volta. L’abbracciò nuda, si svestì e si distese accanto a lei. Per un po’ rimasero immobili, poi si chinò su di lei e i loro corpi si fusero in uno solo.
* * *
A poco a poco il temporale si calmò, pioveva ancora ma non c’era vento. Nel Guranji kraj i rivoli d’acqua scendevano serpeggiando dalle carreggiate e dai sentieri dei pendii. Dai Tončakovi ardeva la luce. Il padrone di casa era seduto in salotto e guardava cupo davanti a sé. All’improvviso si alzò, e poi si sedette di nuovo.
«Anaa,» chiamò, rivolto verso la cucina,«vieni qui.»
La signora Ana socchiuse la porta.
«Aspetta, fra poco.»
«Vieni subito,» disse lui con tono perentorio.«Siediti a tavola.»
«Per l’amor di Dio, cosa c’è di tanto urgente?»
«È urgente, Andrej è stato chiamato alle armi, deve partire dopodomani... Esigo che tu ti riconcili con lui.»
«Ah, così dunque, io dovrei riconciliarmi?»
«Senti, Ana, è nostro figlio, un bravo figliolo, che ha scelto la sua strada. Dobbiamo rispettare la sua decisione. Prenderemo in casa la giovane.»
«Cosa hai detto, in casa?» strillò.
«Certo, in casa. E poi si tratta anche del bambino. Non permetto che Andrej parta senza la nostra benedizione,» gridò battendo il tavolo col pugno.
La moglie impallidì e lo fissò con aria incredula. Un tremito le scosse le mascelle. Solo dopo qualche istante balbettò:
«È colpa mia se si è fatto intrappolare?»
«No, però è colpa tua di esserti intromessa e di avergli avvelenato l’esistenza.»
La donna incominciò a tremare, si coprì il volto con le mani e proruppe in un pianto isterico.
A fior di labbra e con le braccia incrociate sul petto, il marito mormorò:
«Ti fa bene piangere.»
Per un po’ si udirono solo i singhiozzi della donna.
Poi il marito si alzò e le posò la mano sulla spalla. Lei si asciugò le lacrime e si voltò.
«Tu mi accusi. Pensi veramente che abbia peccato?»
«Sì, e per penitenza andrai dal parroco. Per me è importante che tu riconosca il tuo errore e che ti rappacifichi con tuo figlio. Poi provvederemo per la sua famiglia. Oggi sono stato dal decano, domani pomeriggio ci sarà il matrimonio. Tutto sarà come si deve.»
La moglie disse:
«Credevo di agire per la sua felicità...»
«Non tutti abbiamo la stessa idea della felicità, ogni uomo deve conseguirla a modo suo,» replicò il marito.
La donna riprese a piangere.
«Pensiamo sempre di agire nel migliore dei modi», disse il marito, «ma per ora basta, domani sarà una giornata piena di impegni.»
La moglie fu scossa di nuovo dai singhiozzi, poi si asciugò gli occhi, si alzò e concluse:
«Preparerò la stanza grande, sopra l’alveo del fiume...»
* * *
Nell’albergo si fece silenzio. Gli ultimi clienti se ne andarono. La padrona chiuse a chiave la porta d’entrata.
Nella stanza di sopra Andrej cominciò a sentire in testa un terribile ronzìo. Sollevò a fatica il capo, ma una forte vertigine lo spinse di nuovo in giù, sul guanciale. L’oscurità della stanza era percorsa da cerchi che, dal centro, si irradiavano verso l’infinito. Piegò la testa e come attraverso una nebbia scorse il volto di Polda. Allungò il braccio fino al suo viso e riuscì a toccarlo. Percepì il suo respiro affannoso. La donna socchiuse le labbra e bisbigliò:
«Il bambino...»
Poi reclinò il capo e rimase immobile. Andrej mise la mano sul ventre di lei e sentì distintamente lo scalciare del bimbo. In un baleno gli sembrò di vederlo, chiuso come in una scatola natante, agitarsi nel liquido. Gli sembrò di udire il suo pianto. Con uno sforzo estremo afferrò il coltello, posto sul comodino, con esso incise la scatola e crollò. Il sangue cominciò a gocciolare dal ventre di lei.