Disse un povero
pesciolino nell’oceano:
«Scusate, cerco l’oceano.
Potreste dirmi dov’è?»
Anthony de Mello
1
Un vagabondo, un eterno viaggiatore, un sognatore, un decimo nato*, un taumaturgo, un poeta, un saggio, un pazzo, un bambino. Uno scrittore lo ha chiamato Boško. Questo però non ha molto senso, poiché egli non ha un nome, non l’ha mai avuto. O forse ce l’ha: un nome qualsiasi. È pure fuori dal tempo, extratemporale. È così come sta scritto nelle Sacre Scritture: egli era, è e sarà. Non è nato in alcun luogo, in nessun pianeta conosciuto o sconosciuto e non è stato creato. Non ha una casa o una qualsiasi stabile dimora. Una volta diventato vecchio, morirà. Ora voi direte: ma come può essere, se poco prima è stato detto, è stato scritto... Muore, sì, certo che muore, ma la sua morte è solo apparente, poiché già un attimo dopo egli rinasce, in un altro luogo, in un essere nuovo, e continua a vivere, andando qua e là, combinando cose serie e meno serie. Sì, forse avete ragione voi, pensando che probabilmente non sia nient’altro che uno spirito. Uno spirito, certo, una specie di spirito che...
Tuttavia è tempo ormai di iniziare la storia.
Proprio adesso sta passando in fretta accanto a noi. Lo vedete? Tiene in mano un bastone d’oro, vi si appoggia ogni tanto non certo per necessità, ma così, solo un po’ per scherzo. In testa ha un berretto giallo saltellante. I calzoni poi! Sono tutti laceri, sbrindellati, rattoppati in varie parti e con tante pezze marron e verdi, che è difficile accertare il loro vero colore; beh, potrebbero essere color arancione. Guardate ora la sua giacchetta, è di un giallo sbiadito e, come il suo berretto, è assai logora. La camicia sotto la giacca è d’un azzurro tenue, cosparsa di stelline.
Gli corre dietro un cagnolino bianco e riccioluto. Lo sentite come abbaia e ringhia? Gli si scaglia contro, stracciandogli ancora di più i pantaloni, ma lui non vi bada assolutamente. Va innanzi eretto, trasognato, sorridente. Chissà cosa gli sta passando in questo istante per la testa. Dove mai sta vagando o gironzolando il suo spirito? Come mai non vede e non sente nulla? Non ha neppure un vago presentimento. Eppure se ne sta andando diritto diritto verso un precipizio! E vedete cosa porta in spalla? Sul suo bastone d’oro dondola un fagotto, un fagottino bianco. Naturalmente, vorrete sapere cosa vi sia dentro. Interessa anche me. Non può esservi un gran che. Qualche tozzo di pane, alcune mele e qualche prugna, una pera, noccioline, noci, mandorle, un pezzetto di salsiccia per il cagnolino, un po’ di formaggio e forse una bottiglietta di slivovitz.
O santo cielo! Guardate un po’ che razza di scarpe porta sui piedi nudi! Mai visto qualcosa di simile! Sono rosse. Sono davvero proprio rosse. Non ho mai visto un uomo con le scarpe rosse. La bisaccia che gli penzola al fianco è invece rosa. Beh, questo è già un po’ meglio. Un po’ meno ridicolo delle scarpe. La bisaccia è vuota. Vediamo infatti che è proprio un gran poveraccio.
Se ne sta andando verso il precipizio. Se ne va come niente fosse, e vi precipiterà dentro per davvero! Il cane cerca di trattenerlo, ma questo imbecille non gli dà retta. Ecco, adesso si è messo pure a saltellare e a canticchiare allegramente. Lo sentite?
Trallalà, trallalà,
una lieve pioggerella viene giù,
mentre l’arcobaleno prega Iddio
di non arrabbiarsi più.
Così canticchia fra sé e sé. Tiene ben eretta la testa e guarda in alto le nuvole e le nuvolette. Ma che cosa vede lassù? Certamente vede qualcosa, altrimenti farebbe attenzione al cane. Ecco, adesso ha cominciato pure ad agitare il braccio sinistro. Si libra nell’aria, come se volesse disegnare qualcosa sulla volta celeste. Qualcosa di veramente grande, immenso, maestoso.
Ancora un passo, ancora solo un mezzo passo! Cosa vi ho detto? È andato a finire dritto nel precipizio. Che orrore! Sta già precipitando. Per lui è la fine. Amen.
E invece no! Una piccola quercia che si è cacciata in una crepa e si è sviluppata per conto proprio in modo un po’ stentato, diventando per sua ostinazione un alberello vigoroso, lo ha afferrato per la giacchetta. Ecco, ora ciondola dal ramo e ridacchia stupidamente, guardandosi intorno. Il cagnolino invece abbaia dall’alto. Mah, ed ora cosa farà?
Guardatelo, sta già salendo. La roccia si sgretola sotto i suoi piedi, i punti di appoggio sono tutt’altro che sicuri. Tutto sommato, ha avuto fortuna. È già quasi in cima. Ma cosa succede adesso? Perché si sta girando? Cosa sta guardando? E perché sta di nuovo scendendo? È matto forse? O sancta simplicitas, pensate un po’! Su una sporgenza ha scorto una stella alpina, perciò sta discendendo nuovamente per raggiungerla. Riuscirà nell’intento? Ecco, ecco, le è già vicino. Si è inginocchiato e l’accarezza. Adesso si è chinato e l’ha baciata. Vedete come sorride scioccamente? Sorride al fiorellino e sembra gli stia parlando. Sì, gli sta dicendo qualcosa... l’accarezza ancora una volta. Bene, ora si sta alzando, cerca qualche appiglio e risale. Il cagnolino guaisce, probabilmente è felice. Oplà, è già fuori, è sull’orlo del precipizio. Si accovaccia, stringe a sé il cagnolino, lo commisera e gli molla ogni tanto qualche pugno, così, per burla. Ora stanno giocando. È incredibile come il cane durante il gioco cerchi di trascinarlo via dal precipizio. Inavvertitamente lo spinge verso un luogo sicuro. È più saggio del padrone.
Ed ora si allontanano. Il berretto giallo saltella sulla sua testa scompigliata. Il fagottino bianco oscilla come un pendolo, la sua bisaccia rosa rimbalza ad ogni passo sul suo sedere. Le sue orribili scarpe rosse lasciano tracce rossicce sull’erba.
Ma guardate un po’! Saltella da un piede all’altro, se la ride come un matto e canta
Trallalà, trallalà,
una carrozza sulla bianca strada va velocemente
con dentro l’imperatore che russa beatamente.
Prima che scompaia dietro a quella collinetta, dobbiamo affibbiargli un nome. Siete d’accordo? Chiamiamolo: Sfaccendato? Perditempo? Pacioccone? Moto perpetuo? Ridolini? Scioccherello? Zeppelin?
Sento che brontolate e cercate di persuadermi che il nome deve essere ciò che egli è realmente. Mattacchione? Pazzerello? Clown? Arlecchino? No, no, lo so già. Soltanto Pazzerello. Sì, che sia Pazzerello!
* Secondo una leggenda slovena ogni decimo nato, indipendentemente dal sesso, era costretto ad abbandonare la propria casa e vivere da vagabondo.
2
E il Pazzerello felice se ne va in fretta attraverso i campi. Di tanto in tanto fa un saltino, così, come lo fanno i bambini. Cambia il passo, si confonde, cambia il passo nuovamente, riesce ad accordarlo e lancia un grido di giubilo. Però non vede e non sospetta minimamente cosa lo attenda al di là di quella roccia. Là, proprio sulla strada, sta prendendo il sole una vipera stranamente verde e molto velenosa. È di cattivo umore, poiché le dolgono le ossa, la sua età è già alquanto veneranda. È ricolma di terribile veleno, non ha infatti morso nessuno già da lungo tempo. La strada, sulla quale se ne sta distesa, è piuttosto solitaria e poco frequentata.
Il cagnolino del Pazzerello fiuta il pericolo. È inquieto, solleva il muso e rizza le orecchie. Ora cerca di avvertire il suo padrone che non presagisce minimamente il pericolo. Balza davanti a lui e abbaia. Il Pazzerello non lo sente affatto, poiché il suo sguardo si sta perdendo nella visione di meraviglie celestiali: spazia al di sopra delle nuvole, dove la luce si espande come un mare e scorre come un immenso fiume senza rive. La luce si riversa da una nuvola all’altra e, a cascate, fluisce sulla terra. Il Pazzerello, in cuor suo trasformato in gabbiano, allarga le ali e si abbandona a una infinita meraviglia...
Il cagnolino lo afferra di nuovo per i pantaloni e lo tira indietro. Poiché tutto è inutile, lo morde. Il Pazzerello caccia un urlo di dolore, destandosi dai suoi sogni dorati. Stramazza a terra e allora scorge proprio davanti al suo naso la vipera Vecchiona. La vipera, dalla pelle variegata, solleva la testa ed è al colmo della rabbia.
Il Pazzerello non è per nulla impaurito. Pieno di stupore le rivolge parole tenere:
«Oh, oh, cosa fa Sua Grazia sulla mia strada? Perché spaventa il mio cagnolino? Che cosa vuoi dunque, bellezza mia?»
La vipera sbalordita spalanca la bocca. Non riesce a credere che quest’uomo non la tema affatto. Lusinga però la sua vanità il modo con cui l’uomo ha pronunciato le parole: «Bellezza mia!», quelle parole hanno agito su di lei come una dolce carezza e sono come un bicchiere d’acqua fresca nel deserto. L’ira, che qualche momento prima le faceva salire la bava alla bocca, si è calmata per incanto. La tensione è diminuita e con voce ruvida e gutturale gli chiede:
«Mi chiami bellezza mia? Perché dici che sono una bellezza e perché mai: tua?»
«Non sai dunque che sei bella? Guarda com’é snello e perfetto il tuo corpo verde smeraldo. Nessun essere vivente ha una tale bellezza nascosta in una sola linea, in assoluta semplicità. Ricordati come sei nata! Prima di tutto c’era nel nonspazio il nero nulla, poi in questo nulla infinito è nato un minuscolo punto di viva luce, un solo punto, un puntino; questo ha cominciato ad estendersi nell’infinito come un filo argenteo; si è messo ad ondeggiare, ha incominciato ad esistere e sei nata tu: VI, vipera. Guardati insomma! Nella più grande semplicità sei l’essere più perfetto.»
La vipera Vecchiona non poteva assolutamente credergli. Sollevò la testa e così, dall’alto, cominciò ad osservarsi. Dopo un po’ disse:
«In fondo in fondo è vero ciò che dici. Il mio corpo è davvero snello e in questa sua flessuosità è elegante e perfetto. È strano che non lo abbia mai notato. Pensa che durante tutta la mia vita ero convinta di essere brutta, la più brutta su questa terra.»
Era diventata tenera, poi però all’improvviso si scosse e si rabbuiò. E con diffidenza gli chiese:
«Perché hai detto che sono tua?»
«Perché lo sei, infatti mi piaci e ti voglio bene,» rispose.
La vipera fu presa da un grande stupore: «Tu mi vuoi bene? Basilisco santissimo, per quello che io ricordo, gli esseri della tua specie mi hanno sempre perseguitata, aborrita e ammazzata. Tu invece dici che mi vuoi bene. Probabilmente ti prendi gioco di me, non è vero?»
Il Pazzerello le rispose sorridente e perfettamente calmo:
«Se non mi credi, mettimi alla prova.»
La Vecchiona tacque per qualche istante, poi sibilò con astuzia:
«Beh, se davvero mi vuoi bene, allora fammi una carezza! Fammi una bella carezza sul dorso. Va bene?»
Il Pazzerello scoppiò in una risata, dicendo che non si trattava affatto di una cosa tanto particolare. Al suo cagnolino invece, che aveva sentito e visto tutto ciò, si rizzò il pelo. Ringhiava e, terrorizzato, si nascose dietro la schiena dell’amico. Per lo spavento si mise pure a guaire.
Il suo padrone si inginocchiò e stese la mano. Non aveva la minima paura. Neanche un briciolo. Accarezzò dolcemente il corpo snello e scostante della vipera ed anche la sua testa dorata e cornuta.
La vipera ammutolì dalla meraviglia. Nella sua secolare esistenza non era mai successo niente di simile. Non era mai accaduto che un essere vivente non la temesse affatto. Questo balordo invece, non solo non la temeva, ma addirittura sentiva affetto per lei, vedeva chiaramente che le voleva bene. Ciò la commosse fino alle lacrime. Per la prima volta nell’arco dei millenni, da quando esisteva il suo genere, avvenne che la vipera si mettesse a piangere. Le lacrime che scivolavano sulla mano del Pazzerello che la stava accarezzando, si trasformarono in minuscoli cristalli scintillanti come stelle. La vipera gliene versò una manciata e poi gli disse:
«Mettili in tasca, forse ti serviranno. Ora però prosegui il tuo cammino. Hai commosso il mio cuore impietrito. Ho cancellato con le lacrime il mio dolore durato per secoli, ora sono tranquilla e consolata. Non so chi sei, ma chiunque tu sia, che la fortuna ti assista ovunque. Guarda cosa hai fatto. Ho maledetto finora ogni uomo che è passato per di qui, benedico invece te. Oh, cosa mi è capitato negli anni della mia vecchiaia! Sai, mi sento completamente cambiata. Ho paura di non essere più velenosa. Credo che il mio veleno si sia tramutato in latte. Che miracolo, mio caro!»
Il Pazzerello l’accarezzò ancora una volta. Poi le disse di starsene in pace distesa al sole. Oltrepassò il corpo della vipera, mentre il suo cagnolino non ne ebbe il coraggio. Le girò cautamente attorno ringhiando nuovamente contro di lei.
«Ehi, ehi!», gridò la vipera Vecchiona, allorché il Pazzerello era già passato al di là della roccia. «Qual è il tuo nome? Devo saperlo per farlo conoscere a tutte le vipere del mondo. Come ti chiamano?»
Il Pazzerello si meravigliò:
«Qual è il mio nome? A dire il vero, non lo so. Non ho un nome. In generale mi chiamano: Pazzerello. Sono il Pazzerello.»
La vipera annuì col capo. Si arrotolò di nuovo, mettendosi al sole. E anche nel sonno continuò a ripetere con tenerezza: «Pazzerello, Pazzerello, Pazzerello...»
3
Il Pazzerello proseguì la sua strada. Camminò per tutto il giorno e verso sera scorse un grande castello su un colle che sovrastava la città reale di Švikar. Poiché la notte si stava avvicinando, decise che avrebbe pernottato là. La sentinella accanto al ponte levatoio lo osservò per un po’ di tempo con sospetto, lasciando infine passare lui ed anche il suo cagnolino.
Dove andare ora? A sinistra, a destra o diritto? Qualcosa lo spinse a dirigersi verso sinistra e a seguire il proprio intuito. Le vie erano già quasi deserte, gli abitanti ritardatari si stavano affrettando verso le proprie case.
«Dove dormiremo noi due?» chiese il Pazzarello al suo cagnolino. Il cane lo guardò con aria interrogativa, poi scodinzolò, abbaiò in modo significativo e corse su per la via. E il Pazzerello lo seguì. Si fermarono davanti ad un’osteria. Sulla porta in alto pendeva una lanterna, al di sopra di questa un boccale e un grande grappolo in rame.
Mentre il Pazzerello rifletteva se entrare o no, comparve sull’uscio l’ostessa.
«Cosa guardi così sbalordito?» inveì contro di lui.
«Sto guardando proprio te e tu mi riempi di meraviglia,» replicò con tono insolente.
«E perché, se posso chiederlo a Sua Altezza?» chiese con voce minacciosa la petulante ostessa.
«Perché, considerando il tuo cattivo carattere, hai infatti un marito troppo buono,» le rispose ridendo.
L’ostessa afferrò la scopa che stava dietro alla porta e gli corse appresso. Il Pazzerello con un balzo la scansò cominciando a girare intorno al pozzo. La donna agitava la scopa, il Pazzerello si scostava saltando, il cagnolino invece andò a cacciarsi tra le gambe dell’ostessa. Un guardiano notturno stava osservando questo balletto. Per un po’ stette solo a guardare, poi però decise di intervenire. Prese per il collo il Pazzerello e gli ordinò:
«Vieni con me, poiché turbi la quiete notturna e dai fastidio alle persone perbene!»
«E l’ostessa che mi sta molestando e non io lei! Le ho detto ciò che è vero e mi ha assalito con la scopa,» disse cercando di difendersi.
«Silenzio. Dal crepuscolo alla fine della notte, silenzio di tomba!» proferì la sentinella con severità.
Lo accompagnò alla prigione del castello e lo spinse su un mucchio di paglia. Il cagnolino invece rimase fuori, distendendosi davanti alla porta al colmo della tristezza. Dopo un po’ si rassegnò alla sua sorte, appoggiò il capo sulle zampette e guai sommessamente.
Il Pazzerello era felice, avendo trovato infine un luogo in cui passare la notte. La paglia era fresca ed asciutta. Vi si cacciò dentro, addormentandosi ben presto con la coscienza tranquilla.
Quella notte vide in sogno una processione che si stava snodando dalla città fino ad un alto colle, completamente brullo. Stavano portando qualcuno lassù... Lo stesso sogno gli si presentò più volte quella notte.
All’alba si svegliò, accorgendosi di avere molta fame. Rovistò nella bisaccia, nulla. Anche nel suo fagotto non c’era nulla da mettere sotto i denti. Infilò la mano nei pantaloni, nulla. Aveva mangiato la sera precedente tutto ciò che la buona gente gli aveva dato. Si appoggiò al suo bastone d’oro e si alzò. Ora forse vi chiederete stupefatti come mai non gli avessero preso il prezioso bastone, quando lo avevano cacciato in prigione. Il motivo è semplice: avevano visto il bastone, ma non avevano notato che fosse d’oro. Era per tutti un semplice bastone di nocciolo, soltanto il Pazzerello e il suo cane sapevano che era di oro puro...
Nella prigione passeggiava su e giù, dalla porta alla finestra e dalla finestra alla porta. Durante il sonno le sue membra si erano intirizzite, perciò aveva bisogno di un po’ di movimento. Nella tasca della giacchetta, dove aveva infilato le mani per riscaldarle, tastando trovò uno zufolo. Fatto di una canna color giallo oro, aveva dei buchi sulla parte superiore e dei cannelli ai lati, come se là ci fossero degli zufoli più sottili, uno da ogni lato. Si sedette sul mucchio di paglia e accovacciato si mise a suonare. Dallo zufolo scaturirono suoni puri, simili a tremolii e gorgheggi; si effondevano, intrecciavano, ripercuotevano da una parete all’altra fuggendo attraverso la finestra con l’inferriata. Salirono su su fino alla cima della torre, dove li sentì la figlia del re. L’avevano infatti svegliata. Erano talmente carezzevoli e fluenti, dolci come il miele e teneri, che vi porse subito l’orecchio. La esaltarono, portandola al settimo cielo. La principessa chiamò la sua damigella personale e questa a sua volta le guardie; mezz’ora dopo il Pazzerello era già al suo cospetto. Appena la scorse, pregò:
«Fanciulla dal cuore d’oro, dì a questi biechi e malvagi individui che lascino venire da me il mio cagnolino. È fuori, pieno di freddo e affamato. Anch’io ho fame. Hai qualcosa da mettere sotto i denti?»
La principessa sorrise e battè le mani. Il Pazzerello le era subito piaciuto. In attesa della prima colazione, egli dovette suonarle di continuo lo zufolo, mentre lei con il capo assentiva e dissentiva, entusiasmandosi via via sempre di più e meravigliandosi della maestrìa del Pazzerello.
«Cosa vuoi che io ti dia in cambio del tuo zufolo?» chiese allorché cessò di suonare il magico strumento.
«Cosa devi darmi, se te lo regalo...?» scoppiò a ridere il Pazzerello. «Niente. Tanto non vale niente. Eccotelo!»
La principessina fece un salto e mandò un grido di gioia, stringendosi forte forte al petto lo zufolo. In seguito però e all’improvviso si risvegliò in lei un pizzico di vanità che la indusse a chiedergli:
«Dimmi, sono davvero bella? Sono la più bella di tutte? Tu devi saperlo, perché hai girato mezzo mondo.»
Egli la guardò facendo una smorfia e disse:
«Sai, io non ho mai visto una giovane così brutta! Il tuo naso è il doppio del normale, i tuoi occhi sono sporgenti, i tuoi denti sono come quelli di un cavallo, il mento poi è appuntito e troppo prominente. La tua figura invece, aspetta che ti guardi un po’, beh, la tua figura può andare. La verità è che il tuo aspetto esteriore è brutto, ma il tuo intimo emana una tale bellezza, dolcezza e splendore, da farmi rimanere senza fiato.»
La principessina era convinta che il Pazzerello scherzasse a proposito del suo sembiante, perciò si mise a ridere con fare birichino, battè di nuovo le mani e fece una piroetta essendo oltremodo felice.
Fu servita in seguito un’abbondante e ricca colazione: focacce al miele, latte e panna, noce di cocco, banane, arance, mandorle, datteri, dolce alle noci, cotognata, uvetta, cornetti, limonata, the e altre leccornie. Mangiarono, mangiarono e risero, facendo boccacce, masticando rumorosamente, schioccando la lingua e divertendosi da matti. Nel frattempo era arrivato di corsa anche il cagnolino che fece onore alla mensa assieme a loro.
Fino all’ora del pranzo il Pazzerello insegnò alla principessina a suonare lo zufolo. Incredibilmente andò tutto a meraviglia. Era evidente che la natura l’avesse dotata di molta capacità. Imparò con rapidità e nel pomeriggio era già in grado di suonare diciassette arie. Ne era molto orgogliosa e quasi quasi si montò la testa.
Quando nel pomeriggio fu servito il the, comparve anche il re, accompagnato dalla regina e dal suo seguito al completo: dame di corte imbellettate, cortigiani vanagloriosi e servitori pieni di sussiego. Il Pazzerello appena li scorse, rimase a bocca aperta, tese la mano e puntò l’indice sul re e sulla regina, cominciando a darsi colpi sulle ginocchia e ridendo a crepapelle tanto che tutti rimasero di stucco. Guardava ora il re ora la regina e non riusciva a smettere di ridere.
Tutti ammutolirono di fronte a tanta maleducazione che rasentava già l’insolenza. Il ministro per gli affari esteri si accostò al Pazzerello e gli chiese con serietà in tono ufficiale: «Perché stai sganasciandoti dalle risa? Cosa c’è di tanto ridicolo?»
Alla fine il Pazzerello cessò di ridere, ma il suo corpo era ancora scosso da sussulti di ilarità. Quando il ministro gli domandò per la terza volta il motivo delle sue sghignazzate, egli spiegò:
«Non ho mai visto un re così tondo come una palla e neppure una regina così formosa da rasentare il ridicolo. Se almeno fossero vestiti in modo che non si vedessero quegli enormi cuscini e cuscinetti di grasso, ma quei due sono nudi, completamente nudi! Chi non creperebbe dalle risa guardando queste due botticelle e il pisellino del re che è scomparso del tutto nella rotondità del suo pancione; sembra perciò che il re non abbia gli attributi della sua virilità ed è simile a una donna, è tale e quale la regina...»
Ascoltando quelle parole, tutti ammutolirono. Il primo a riprendersi fu il ministro degli esteri. Con voce stridula riuscì a malapena a proferire:
«Nel nome dell’eterno potere del re della Švikarija ti dichiaro all’istante in arresto!»
Le guardie eseguirono subito l’ordine e prima di sera il Pazzerello si ritrovò in quella stessa prigione in cui aveva passato la notte.
«Beh, ora perlomeno non ho fame,» borbottava fra sé, coprendosi con la paglia. Gli era pure di conforto udire gli allegri suoni che arrivavano dalla finestra del piano di sopra, dalla rotonda torre, dove la principessina si divertiva a suonare lo zufolo.
«Non c’è male, davvero non c’è male,» diceva annuendo col capo. «La ragazza ha talento, lo ha senza alcun dubbio. Però soffia troppo forte nello zufolo. Ehi, ragazzina, con più delicatezza, con meno foga, mi hai sentito?» disse cercando di insegnarle da lontano, più che altro mentalmente. Ed effettivamente la fanciulla cominciò a suonare con sentimento e quindi con maggiore sensibilità e attenzione.
La mattina seguente, prima che il sole sorgesse dietro alle colline, il Pazzerello era già fuori dalla prigione e al di là delle mura del castello, era libero. Chiederete, cosa mai sia successo? La principessina aveva avuto pietà di lui ed era venuta a liberarlo. Con lei era arrivato zampettando pure il cagnolino che fu talmente contento dell’incontro da incominciare a guaire e abbaiare allegramente. Ci mancò poco che non rovinasse tutto. Le guardie infatti si svegliarono, ma per fortuna i soldati non avevano voglia di andare a vedere cosa stesse accadendo e ben presto ripresero a russare.
Il Pazzerello e la principessina si congedarono in fondo al giardino del castello, vicino al ponticello d’argento. Lei lo abbracciò confusa e lo baciò in fretta sulle guance, lui invece le accarezzò i capelli e le disse con tono lusinghiero:
«Hai davvero dei bei capelli. Sono morbidi e lisci come seta. E ancor più belli sono i tuoi occhi, come due piccole luci, come due turchesi.»
Voleva baciarlo ancora una volta, ma l’ultimo momento cambiò idea.
Con la chiave aprì la porta del giardino e il Pazzarello si trovò nei campi. Prima di salutarsi definitivamente, le chiese:
«Ehi, ehi, come ti chiami?»
È incredibile, non è vero, che fino a quel momento non le avesse mai chiesto il suo nome. Non l’aveva chiesto veramente. La chiamava semplicemente Principessina e anche Principessina mia. Lei invece l’aveva chiamato fin dall’inizio Pazzerello, come se avesse saputo che quello era il suo vero nome.
«Sono la principessa Esmeralda,» gli confidò in segreto.
«Addio, Esmeralda! Ci vedremo ancora!» le disse voltandosi.
Il sole stava sorgendo, quando egli dai campi agitò il braccio in segno di saluto. Esmeralda gli mandava baci con la mano, confessando a se stessa che il Pazzerello le piaceva e che forse si era innamorata un po’ di lui. Un po’, dunque nulla di serio e di profondo. O forse non era proprio così?
4
Il Pazzerello e il suo piccolo cane riccioluto proseguirono il loro cammino. Il sole non si era ancora levato di cinque spanne, allorché scorsero quella processione che, in sogno, il Pazzerello aveva visto in prigione. Pensava che fosse un funerale e perciò si mise rispettosamente sul ciglio della strada, congiunse le mani, chinò il capo e aspettò. Anche il cagnolino rimase quieto ai piedi del suo padrone. Si accovacciò osservando attento la gente che si stava avvicinando.
In testa alla lunga fila camminava traballando un uomo, sulle cui spalle era stata posta una croce grande e pesante. Era basso di statura e mingherlino, visibilmente stanco a morte. Gocce di sangue coprivano il suo corpo e così pure il suo volto. Era quasi completamente nudo, soltanto i suoi fianchi erano cinti da uno straccio azzurro. Oscillava, stava per cadere, cadeva e poi si risollevava. Attorno a lui i soldati saltellavano e gridavano, percuotendolo ogni volta che crollava sotto il peso. La gente lo seguiva a capo chino borbottando una specie di preghiera.
Quando il Pazzerello si accorse che quello non era un funerale, ma qualcosa di completamente diverso, si destò dallo stato in cui sprofondiamo in presenza di morti e dunque di una bara. Fece un salto, senza pensare a niente e men che meno ai soldati. Quell’uomo che portava la pesante croce sulle sue deboli spalle e che i soldati flagellavano senza pietà, gli fece un’immensa pena.
«O santo cielo, santo cielo!» disse gemendo ed era già vicino a lui. Gli tolse la croce ponendola sulle proprie spalle, sogghignò in faccia ai soldati e alla gente in processione, fece l’occhiolino in modo burlesco al poveraccio, avviandosi per la strada polverosa con la nera croce. Così, con la massima semplicità.
I soldati sbalorditi spalancarono la bocca, ancor più sbigottito era il loro capo, una specie di caporale. La gente in processione ammutolì, senza borbottare più le lunghe litanie trascinate all’infinito.
La processione ondeggiò, come se la terra si fosse messa a tremare.
Infine il caporale si riprese e urlò al Pazzerello:
«Chi sei tu che osi turbare una giusta crocifissione?»
Il Pazzerello lo guardò da sotto la croce e rispose con una grande risata:
«Io sono una nullità assoluta. Sono ciò che ero, ciò che sono e ciò che sarò. Mi hai capito?»
Il caporale naturalmente non aveva capito nulla. Capì con chiarezza solo che quel mendicante, quel matto di un vagabondo, turbava un rito molto significativo e comprese che doveva subito intervenire. Divenne verde dalla bile e gridò ai suoi soldati:
«Flagellatelo! Se vuole soffrire, che soffra pure!»
I soldati si slanciarono subito addosso al Pazzerello. I colpi arrivavano su di lui da ogni parte, in modo duro e crudele. Benché sentisse dolori atroci, non abbandonò la croce. Il suo cagnolino voleva difenderlo, ma uno dei soldati gli assestò un calcio facendolo cadere in un fosso. Continuò tuttavia ad abbaiare, pur non osando avvicinarsi alle loro gambe.
L’uomo che aveva portato prima la croce, gli gridò, mentre lo stavano percuotendo e mentre le fruste lo colpivano sibilando:
«Lascia andare la croce, se vuoi salvarti! Altrimenti ti ammazzeranno!»
Il Pazzerello gli rispose lamentandosi, singhiozzando e sputando sangue:
«Se io cedo, tortureranno di nuovo te. Riposati ora un po’, vedo che sei allo stremo delle tue forze. Porterò io questo celestiale crocifisso fino alla cima del colle.»
La folla che era in processione riprese a pregare a voce alta e sospirando snocciolava litanie e rosari. Al Pazzerello pareva di udirla: «L’orazione e agonia di Gesù nel Getsemani. La flagellazione di Gesù nel pretorio di Pilato...»
Le percosse diventarono sempre più selvagge e sempre più cocenti, ma il Pazzerello non pensò neppure per un attimo di abbandonare la croce. La strada ora era ripida e la croce divenne pesante come fosse di piombo, le sue forze invece si affievolivano sempre più rapidamente. Il sangue gli colava dalla fronte e gli appannava la vista, tanto che vedeva tutto rosso e come in una nebbia.
«Lascia andare la croce, per la tua salvezza!» gli disse di nuovo il Martire.
«Lascia andare la croce o ti ammazzeremo!» urlava il caporale.
«Lascia la croce o altrimenti ti crocifiggeremo!» sibilava la moltitudine.
«No, no e poi no!» rispose con ostinazione. «Non la lascio per tutto l’oro del mondo!»
E fece davvero così, finché non giunse, trascinandosi, alla sommità del brullo colle. Qui successe qualcosa di molto strano. All’improvviso una forza sovrumana e una gioiosa follia si impossessarono del Pazzerello che si mise a ridere a più non posso. Rideva a crepapelle in modo così rumoroso e persuasivo che il riso contagiò prima i soldati, poi il caporale e alla fine tutta la folla. Non riuscivano in alcun modo a trattenersi dal ridere, da quel ridere smodato e pazzo. Si rotolavano per terra, tenendosi la pancia e continuando a ridere senza posa.
Poi a poco a poco il fragore di quelle risa sfrenate si attutì. Seduti per terra si asciugavano le lacrime e prima che avessero potuto riprendersi del tutto, il Pazzerello e il Martire si allontanarono. Il cagnolino li seguì agitando la coda come una sciabola.
«Beh, hai visto dunque!» disse il Martire. «Quella gente là naturalmente mi avrebbe crocifisso di nuovo. Tutti quelli che erano alla processione mi avrebbero messo in croce, glorificando la mia passione piuttosto che la mia risurrezione e la vita eterna. Non vedevano l’ora di godere di nuovo delle mie sofferenze. Uomini indegni e di poca fede! Eppure sono risuscitato dai morti, e con la mia riapparizione, ho dimostrato a tutti che con l’amore ho vinto la croce e la morte, non per me, ma per loro! Ma quelli non vogliono credere! Non credono che io li abbia redenti dal dolore con la mia morte e che abbia aperto loro la porta del paradiso. Poiché non credono e non vogliono credere nella redenzione per mezzo dell’amore, continuano a ripetere su loro stessi questa crocifissione. Come si trattasse di una cosa naturale, continuerebbero a inchiodare sulla croce proprio me che mi sono fatto uomo per loro, diventando uno di loro, in tutto uguale a loro. Se negli uomini ci fosse un solo granellino di fede, sarebbero salvi. Così invece... »
«Chi mai avrebbe pensato qualcosa di simile!» replicò con tristezza il Pazzerello.
Si accorse poi che dal suo corpo erano scomparsi tutti i segni della flagellazione. Sul suo volto, sulle sue braccia, sulle gambe e sulle altre parti del corpo non c’era più la minima traccia delle violenti percosse. Era scomparsa pure la ferita incisa dalla nera croce. Con estrema merviglia continuava a esaminarsi, non riuscendo a credere ai propri occhi. Rivolse allora al Martire uno sguardo interrogativo e costui cercò di spiegargli:
«È il mistero della fede, Pazzerello mio. La prova dell’amore, del coraggio e della fedeltà. Eppure avevo detto agli uomini: Se voi aveste solo un briciolo di fede, grande quanto un granello di senape, muovereste le montagne. La paura invece li paralizza, toglie loro la forza e la capacità di capire un mistero molto semplice: ciò a cui credi con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con la tua mente e con la tua stessa vita, ciò si avvererà! spiegò il Martire, cingendo con il braccio amichevolmente le spalle del Pazzerello e sorridendo. «Gli uomini sanno che la vita del corpo dura solo un istante del tempo infinito, ciononostante ripongono in essa tutta la loro fiducia, sacrificandole tutto. Se almeno avessero imparato a sorridere!»
«Sì, certo, hai ragione. A dire il vero non so bene di che cosa tu stia parlando. Sai, io sono un uomo semplice. La filosofia non è il mio forte. Non ho mai capito i sublimi principi o come tutto ciò viene chiamato. Sai, sono solo un Pazzerello, non è vero?» cercava di scusarsi il vagabndo.
«Oh, lo so, lo so, Tu sei la sancta simplicitas in persona, ma questa tua semplicità ti rende più grande di coloro che si reputano i più profondi pensatori... » gli disse il Martire dandogli un colpetto sulla spalla.
In cima a un alto monte si congedarono. Il Pazzerello scese con il suo cagnolino verso la valle. Non riuscì a vedere in che modo il Martire salisse al cielo. Lo fece in maniera molto semplice. Allargò le braccia, pronunciò ad alta voce un nome e all’istante fu tratto verso l’alto, dove la sua immagine si dissolse nel nulla...
5
A mezzogiorno il Pazzerello giunse presso un fiume, dove alcuni uomini sciacquavano la sabbia per cercarvi granelli d’oro. Passando dall’uno all’altro il Pazzerello chiedeva a ciascuno:
«Che cosa stai facendo? Perché frughi nella sabbia? A cosa ti serve tutto ciò?»
I cercatori d’oro gli rispondevano in vario modo. Gli uni dicevano: «Ragazzo mio, sto cercando granelli d’oro,» Altri si mostravano infastiditi: «Ma non vedi da solo cosa sto facendo? Dove hai gli occhi?» Altri ancora lo cacciavano via arrabbiati: «Lasciami in pace, fila via se non vuoi che prenda in mano il badile!» Altri inveivano contro di lui: «Va’ al diavolo!» Altri ancora dicevano inviperiti: «Sei proprio uno scemo, se non capisci perché faccio questo! L’oro è denaro e il denaro è vita. Se non sai ciò, non sai davvero niente.»
Ben presto tutti si stancarono di lui e allora il Pazzerello per sfuggire alla loro irascibilità e al loro nervosismo, si sedette sotto la chioma fronzuta di un albero, pieno di meraviglia per la loro grande perseveranza e soprattutto per la passione con cui svolgevano il loro lavoro. Faceva caldo, molto caldo e quella gente si abbrustoliva al sole cocente, estraeva la sabbia dal fondo del fiume e la versava nel setaccio, passandola e ripassandola ad occhi spalancati, per vedere se sulla rete fosse rimasto qualcosa di luccicante...
Il Pazzerello non capiva quella gente. «Se raccogliesse così i chicchi di frumento, allora sì sarebbe una cosa ragionevole. Ma questi granelli a cosa mai gli serviranno? Certo sono belli, brillano come stelline, ciò nonostante, ne vale la pena? Io giocherei con questi granelli. Questo sì, ma se per ciò io dovessi sciacquare la sabbia per settimane e settimane e dopo un mese ne avessi solo una manciatina, allora non ci starei proprio in alcun modo!»
Rifletteva così. Il sole scottava, stanco e assonnato si distese all’ombra. Il giaciglio però non era comodo, per questo motivo si alzò avvicinandosi alla riva del fiume. Sollevò una pietra piatta per posarvi sopra il capo, sotto la quale brillava qualcosa di giallo. Si chinò e frugando in ginocchioni - guarda un po’! - trovò un grumo d’oro, grande come una biglia. Lo raccolse, l’avvicinò agli occhi, stupefatto per la sua lucentezza. Frugò ancora e raccolse altri cinque pezzi della stessa grandezza ed anche un po’ più grandi. Mise tutto nella sua bisaccia, portò poi la pietra sotto l’albero, depose sopra il suo fagotto, poggiandovi la testa e addormentandosi beatamente.
Nel sogno che fece in seguito, gli apparve la principessina Esmeralda. Stava alla finestra nella sua torre, gli mandava baci, facendogli cenni e invitandolo a ritornare al castello. Nella continuazione del sogno appariva in cima alle mura di cinta e suonava ora lo zufolo d’argento ora quello d’oro. Allorché suonava quello d’argento, la musica era malinconica, pensierosa e quasi triste, quando invece suonava lo zufolo d’oro la musica diventava allegra, giocosa e ballabile. Il Pazzerello assentiva con cenni del capo ed era soddisfatto, poiché la principessina suonava molto meglio di quanto lo facesse quando egli l’aveva lasciata. Il suo progresso era evidente.
All’improvviso però una voce squillante si fece udire dal cielo. Il Pazzerello volse lo sguardo verso le nuvole, dalle quali il suono proveniva, ma là non c’era nessuno. C’erano soltanto nuvole irradiate dal sole e si udiva una voce che tuonava dall’alto:
«Non costruite per voi altari di pietra lavorata! Con tale pietra non costruite neppure le vostre case. Non posate le vostre mani su opere che io ho creato. Non profanatele, poiché in esse c’è la mia parola! Imitate gli uccelli e gli altri animali e siate come i fiori sul prato. Io che sono colui che è, provvederò a voi e nulla vi mancherà. Se però profanerete le mie creazioni, io vi abbandonerò e per tutti i giorni della vostra vita dovrete provvedere da soli e di tutto sarete voi soli i responsabili.»
Il Pazzerello si svegliò di soprassalto. Il cuore gli batteva forte per la paura e un sudore freddo lo bagnava. Si voltò a guardare i cercatori d’oro, ma questi fingevano di non aver sentito nulla. Non riusciva a capacitarsi perché facessero così, si rivolse perciò a colui che gli era più vicino:
«Ehi, tu! Hai sentito la voce dal cielo che parlava di pietre? L’hai sentita?»
L’omone scuoteva il setaccio, frugava fra i resti e cercava attentamente i pezzetti d’oro. Non badò affatto al Pazzerello. Questi allora parlò di nuovo, ma sempre senza risultato.
Il Pazzerello non riusciva a togliersi dalla mente quella voce possente e risonante come un tuono. guardò la pietra sulla quale poco prima aveva posato la sua testa. La tastò e la prese in mano sollevandola. Non gli pareva affatto una pietra speciale. Era solo un po’ diversa dalle altre. Sembrava tuttavia leggermente oleosa e brillante. Non riusciva a capire ciò che quella voce poco fa aveva detto e cioè come mai in quella pietra potesse esserci La Sua Parola.
Si avvicinò al primo cercatore d’oro e gli domandò se avesse qualcosa da bere. Aveva infatti una gran sete e desiderò intensamente, non si sa perché, un bicchiere di vino.
«Ce l’ho, se hai denaro», gli rispose con noncuranza l’uomo che setacciava la sabbia, senza nemmeno guardarlo.
«Non ho soldi, neanche uno spicciolo», disse il Pazzerello con una certa tristezza.
«Allora non se ne fa niente. Senza soldi niente vino. Ed ora vattene, disgraziato perditempo!» Così lo cacciò via quell’omone dalla lunga barba.
Non avendo ottenuto il vino, si accostò al fiume, si chinò, prese l’acqua con il palmo della mano e se la portò alla bocca. Bevette ciò che aveva attinto e si stupì fortemente, l’acqua non era acqua ma vino. Incredulo scosse il capo e prese su l’acqua di nuovo. anche questa volta l’acqua si trasformò in vino rosso nel suo palmo. E così pure la terza volta. Il Pazzerello non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Non volle però lambicarsi il cervello cercando di indovinare, non faceva parte della sua indole. Mise a tracolla la sua bisaccia, appese al bastone il suo fagotto, chiamò il suo cagnolino e insieme proseguirono il loro cammino.
Camminarono a lungo, quasi fino alla sera. Alla fine apparvero le case della piccola città di Mekiši.
Alcuni bambini stavano giocando vicino a un ruscello. sedevano a gambe incrociate, lanciavano sassolini e li afferravano con abilità. Il ragazzo che si lasciava sfuggire di mano il sassolino, perdeva il gioco.
Il Pazzerello li osservava curioso e sorridente. Dopo un po’ si avvicinò e chiese, come se fosse anche lui un ragazzo, se poteva unirsi a loro. Non avevano nulla in contrario, perciò si sedette in mezzo e cercò nella sua borsa i pezzetti d’oro che aveva trovato sotto la pietra in riva al fiume.
I bambini esclamarono: «Che bei sassolini che hai! Dove li hai trovati?»
«Li ho trovati in riva al fiume,» rispose con indifferenza.
Il Pazzerello non era abile nel gioco e continuava a perdere. I bambini lo prendevano in giro e uno particolarmente furbo propose:
«Ogni volta che perderai, ci darai uno di questi bei sassolini. Sei d’accordo?»
Rispose di sì con un cenno del capo e ogni volta che perdeva giocando con uno qualsiasi di loro, gli dava un pezzetto d’oro. E così continuarono a giocare piacevolmente l’uno dopo l’altro. Quando il gioco finì, al Pazzerello rimase in mano un solo e unico pezzetto d’oro. Era il più grande e il più bello. Lo rimise nella sua bisaccia, non perché si rendesse conto del suo valore, ma solamente perché era il pezzo più lucente e anche il più rotondo, e questo lo rendeva felice come un bambino.
6
La notte stava già calando sul paese, allorché il Pazzerello e il suo cagnolino si avvicinarono ad una fattoria isolata. Il Pazzerello gridò:
«Ehi! C’è qualcuno in casa?»
Da dietro un covone spuntò un ometto mingherlino che nonostante il suo gracile fisico rispose con voce poderosa:
«Quale buon vento ti porta? Hai forse fame e sete e vorresti pernottare da me?»
Aveva infatti subito riconosciuto nel Pazzerello un mendicante e un viaggiatore povero.
Il Pazzerello canticchiò:
«Se potesse essere così gentile, io la pregherei di darmi un tozzo di pane e una tazza di latte.»
L’ometto si chiamava Strapparave. Portava alti stivaloni marron, pantaloni blu ben aderenti, una giacchetta color rosso mattone, che da una parte gli arrivava fino a metà coscia, sul capo gli penzolava un cappuccio marronastro, simile ad un cartoccio. Aveva inoltre una lunga barba ormai quasi tutta grigia. I suoi occhi erano vivaci e chiari come due fuocherelli. Abitava tutto solo in quella casa, coltivava due piccoli campi e un vigneto che era leggermente più grande. Possedeva una mucca, alcune galline e una capra.
Invitò il Pazzerello ad entrare in casa e gli offrì polenta di grano seraceno, latte e un ottimo succo di fragole di bosco. Anch’egli cenò. Quando furono sazi Strapparave chiese al Pazzarello che cosa avesse visto durante il suo cammino e chi avesse incontrato. Il Pazzerello gli raccontò tutto ciò che gli era capitato di vedere negli ultimi tempi. L’ometto lo ascoltava attentamente e in seguito chiese:
«È vero che il nostro re e la nostra regina sono nudi e così tondi come le mie botticelle da vino? È proprio vero?»
Il Pazzerello assentì con il capo e il cagnolino confermò le sue parole abbaiando. Spolpò gli ossi che Strapparave gli aveva gettato sotto il tavolo, rosicchiò tre croste di pane dure come sassi, sorseggiò un po’ di latte di capra e ne fu del tutto felice e soddisfatto.
«Sono nudi entrambi, davvero completamente nudi? » chiese Strapparave al colmo della meraviglia. «E la principessina? È anche lei... »
«Oh, no, questo poi no,» disse il Pazzerello. «La principessina sta imparando a suonare lo zufolo. È veramente molto brava.»
«Suona lo zufolo?» chiese l’ospitale ometto sbalordito.
«Sì, lo zufolo. Adesso ti farò vedere,» disse e tirò fuori dalla giacchetta lo zufolo che si era fabbricato strada facendo, prima di incontrare i ragazzi con i sassolini.
Si mise a suonare la canna magica e continuò a suonare a lungo. La musica che usciva dai fori era così strana e celestiale che Strapparave l’ascoltò a bocca aperta.
«Dove mai hai imparato a suonare così, così... » balbettava l’ometto.
«L’ho imparato dagli uccelli, dalle nubi, dal fiume, dalle cicale, dai grilli, dal vento, dalle onde, dalle pietre... » spiegava il Pazzerello.
«Sì, così cantano gli uccelli. Press’a poco così,» annuiva l’ospite.
Poi andarono a dormire. Il Pazzerello si distese su una panca accanto alla stufa, Strapparave invece sull’unico letto che esisteva in casa. Il cagnolino si accovacciò sotto la panca e così tutti dormirono beatamente fino al mattino.
Dopo aver fatto colazione, il Pazzerello chiese al suo ospite che cosa gli dovesse. Strapparave gli rispose con noncuranza:
«Dammi quella pallina d’oro che hai nella bisaccia e siamo a posto.»
Il Pazzerello era d’accordo per il prezzo del cibo e del pernottamento. Pose sul tavolo la pallina d’oro che gli era ancora rimasta. Strapparave fece un cenno di assenso, prese il dovuto, lo soppesò, fece un altro cenno ancora e poi si salutarono, dicendosi: «Addio!» Il Pazzerello si diresse verso il grande mondo, mentre Strapparave se ne andò sul campo a sarchiare la terra intorno alle rape.
7
Poco dopo aver lasciato la città, si unì per strada al Pazzerello un tale che gli assomigliava molto. Portava un lungo pastrano grigio e sandali ai piedi, una bisaccia gli penzolava sul fianco e aveva pure un bastone. Prima di tutto si salutarono amichevolmente, poi camminarono l’uno accanto all’altro senza parlare. Rimasero così, in silenzio, per una mezz’ora circa, poi l’uomo dal lungo mantello chiese:
«Ti ha lasciato qualche messaggio per me il Martire che tu hai aiutato a portare la croce?»
Il Pazzerello riflettè un po’, quindi si ricordò e rispose:
«Sì, mi ha detto che non era di questo mondo e che stava tornando là da dove era venuto. Ha pure soggiunto che avrei incontrato un uomo quale tu sei e che costui mi avrebbe chiesto ciò che tu mi hai chiesto or ora e che io avrei dovuto rispondergli così:
«Tutto è vento e tutto è un dare la caccia al vento. Con le sue mani l’uomo non può acchiappare il vento e non può neppure prendere e conservare per sempre nessun’altra cosa. I castelli scompaiono senza lasciare traccia, le città si trasformano in sabbia del deserto, l’oro si muta in polvere dell’universo. Non cercare dunque tra le cose che vedono i tuoi occhi, che toccano le tue mani, che fiuta il tuo naso, che assapora la tua lingua, che sente la tua pelle... cerca invece ciò che non ha né nome né forma e che non si tocca, non arriva da nessun luogo, non va verso nessun luogo e non ritorna in nessun luogo.»
Il compagno di strada, annuendo con la testa, pregò il Pazzerello di raccontargli tutto di nuovo. In seguito gli chiese:
«Lo sai qual è la via più corta e nello stesso tempo la più lunga?»
Il Pazzerello, pensando che si trattasse nuovamente di un gioco simile a quello con i sassolini, senza pensarci su disse:
«È quella che porta al cuore.»
Il monaco assentì e poi chiese di nuovo:
«E tu lo sai dov’è nascosto il tesoro?»
Il Pazzerello in tutta fretta rispose:
«Nella mandorla, sotto il suo duro guscio. Nel chicco di grano che muore di buon grado. Nelle mani che donano e nel cuore pietoso che non si aspetta né gratitudine né ricompensa.»
«Sai che cos’è un labirinto e come se ne esce?»
«Il labirinto è il nostro cammino dalla culla alla tomba e ne puoi uscire solo se trovi e accendi in te stesso una piccola luce, se desti in te un’anima che, come una fiammella, ti guiderà con il suo chiarore e ti proteggerà.»
«E che cosa succederebbe, se tutto ciò non riuscisse?»
«Allora ti sbranerebbe il mostro che è nascosto nell’oscurità del tuo labirinto,« disse con calma il Pazzerello.
«Come, nel mio labiritno? Ne ha forse ognuno uno proprio?» esclamò meravigliato il viandante.
«L’ho già detto: il labirinto è il nostro percorso dalla culla alla tomba. E ognuno ne ha uno suo proprio. Non c’è neppure un cammino che sia del tutto uguale ad un altro. Ce ne sono alcuni che sono più facili, altri invece sono più difficili. I labirinti sono piccoli e semplici oppure molto complicati e pieni di tranelli...»
Per un po’ stettero in silenzio. Poi lo sconosciuto interloquì di nuovo:
«Vedo in sogno quasi ogni notte un albero alto, robusto, perfettamente sano e pieno di fiori rosa. Cosa significano questi sogni?«
«L’albero congiunge la terra con il cielo. La terra bacia il cielo e il cielo bacia la terra. È un bacio fra due opposti.«
«Non capisco tutto ciò,» disse l’eremita.
«Guarda e rifletti! Il cielo tocca la terra con le radici dell’albero e la terra tocca il cielo con la sua chioma. Una chioma fiorente vuole significare che la terra anela alla leggerezza. È anche una preghiera incessante dei rami protesi verso il cielo, verso le altitudini. Il cielo esplora con le radici dell’albero l’oscurità della terra e, congiungendosi con questa, crea di continuo nuove vite; nei semi la luce si unisce alle tenebre per dar luogo a una nuova germinazione. L’albero è l’alleanza fra la luce e le tenebre. È un ponte sull’abisso che separa ciò che è visibile e tangibile da ciò che è incomprensibile e inesprimibile.»
Il monaco rimase profondamente assorto nei suoi pensieri. In seguito chiese con voce sommessa:
«Quali sono le tre parole che un padre morto, già nella tomba e coperto di terra, disse al proprio figlio?»
Il Pazzerello frugò nella memoria, ricordò le parole e rispose:
«Il padre disse: Amore, amore, amore, figlio mio!»
«Ma l’uomo vivo ha capito il morto? Ha compreso di quale amore parlava l’uomo dalla tomba?»
«No, non l’ha capito, » rispose con tristezza. «Interpretava l’amore a modo suo e visse in seguito conformemente a quello. »
«E che cosa gli successe? »
«La belva lo dilaniò. L’amore al quale si abbandò, fu un amore ardente e appassionato, che invece di togliere vigore al mostro, glielo accrebbe. »
«E tu sai di quale amore parlasse il padre morto?»
Il Pazzerello fece, in strada, l’atto di nuotare e di ballare, poi, mettendosi a ridere, disse: «Questo tu lo sai meglio di me!»
Il forestiero si fermò. Prese per mano il Pazzerello, fissò il proprio sguardo negli occhi vivaci di lui e gli parlò così:
«Ti ringrazio di ciò che mi hai rivelato. Sai bene che ti ponevo delle domande perché ho smarrito la retta via. Con le tue risposte mi hai dato indicazioni e avvertimeni appropriati. Dimmi, che cosa ti devo?»
Il Pazzerello rimase sbalordito: «Tu sei mio debitore? E di che cosa mai? Non sai che tutto era solo un gioco? Hai forse perso, per dovermi dare qualcosa oppure per caso ho vinto io?»
Lo sconosciuto sorrise porgendo la mano al Pazzerello. Al crocevia girò a sinistra, mentre il Pazzerello si diresse a destra. Il cagnolino, correndo, seguì per un po’ il monaco, ma poi si volse e corse in tutta fretta verso il suo amico.
Nadaljevanje ...
Disse un povero
pesciolino nell’oceano:
«Scusate, cerco l’oceano.
Potreste dirmi dov’è?»
Anthony de Mello
1
Un vagabondo, un eterno viaggiatore, un sognatore, un decimo nato*, un taumaturgo, un poeta, un saggio, un pazzo, un bambino. Uno scrittore lo ha chiamato Boško. Questo però non ha molto senso, poiché egli non ha un nome, non l’ha mai avuto. O forse ce l’ha: un nome qualsiasi. È pure fuori dal tempo, extratemporale. È così come sta scritto nelle Sacre Scritture: egli era, è e sarà. Non è nato in alcun luogo, in nessun pianeta conosciuto o sconosciuto e non è stato creato. Non ha una casa o una qualsiasi stabile dimora. Una volta diventato vecchio, morirà. Ora voi direte: ma come può essere, se poco prima è stato detto, è stato scritto... Muore, sì, certo che muore, ma la sua morte è solo apparente, poiché già un attimo dopo egli rinasce, in un altro luogo, in un essere nuovo, e continua a vivere, andando qua e là, combinando cose serie e meno serie. Sì, forse avete ragione voi, pensando che probabilmente non sia nient’altro che uno spirito. Uno spirito, certo, una specie di spirito che...
Tuttavia è tempo ormai di iniziare la storia.
Proprio adesso sta passando in fretta accanto a noi. Lo vedete? Tiene in mano un bastone d’oro, vi si appoggia ogni tanto non certo per necessità, ma così, solo un po’ per scherzo. In testa ha un berretto giallo saltellante. I calzoni poi! Sono tutti laceri, sbrindellati, rattoppati in varie parti e con tante pezze marron e verdi, che è difficile accertare il loro vero colore; beh, potrebbero essere color arancione. Guardate ora la sua giacchetta, è di un giallo sbiadito e, come il suo berretto, è assai logora. La camicia sotto la giacca è d’un azzurro tenue, cosparsa di stelline.
Gli corre dietro un cagnolino bianco e riccioluto. Lo sentite come abbaia e ringhia? Gli si scaglia contro, stracciandogli ancora di più i pantaloni, ma lui non vi bada assolutamente. Va innanzi eretto, trasognato, sorridente. Chissà cosa gli sta passando in questo istante per la testa. Dove mai sta vagando o gironzolando il suo spirito? Come mai non vede e non sente nulla? Non ha neppure un vago presentimento. Eppure se ne sta andando diritto diritto verso un precipizio! E vedete cosa porta in spalla? Sul suo bastone d’oro dondola un fagotto, un fagottino bianco. Naturalmente, vorrete sapere cosa vi sia dentro. Interessa anche me. Non può esservi un gran che. Qualche tozzo di pane, alcune mele e qualche prugna, una pera, noccioline, noci, mandorle, un pezzetto di salsiccia per il cagnolino, un po’ di formaggio e forse una bottiglietta di slivovitz.
O santo cielo! Guardate un po’ che razza di scarpe porta sui piedi nudi! Mai visto qualcosa di simile! Sono rosse. Sono davvero proprio rosse. Non ho mai visto un uomo con le scarpe rosse. La bisaccia che gli penzola al fianco è invece rosa. Beh, questo è già un po’ meglio. Un po’ meno ridicolo delle scarpe. La bisaccia è vuota. Vediamo infatti che è proprio un gran poveraccio.
Se ne sta andando verso il precipizio. Se ne va come niente fosse, e vi precipiterà dentro per davvero! Il cane cerca di trattenerlo, ma questo imbecille non gli dà retta. Ecco, adesso si è messo pure a saltellare e a canticchiare allegramente. Lo sentite?
Trallalà, trallalà,
una lieve pioggerella viene giù,
mentre l’arcobaleno prega Iddio
di non arrabbiarsi più.
Così canticchia fra sé e sé. Tiene ben eretta la testa e guarda in alto le nuvole e le nuvolette. Ma che cosa vede lassù? Certamente vede qualcosa, altrimenti farebbe attenzione al cane. Ecco, adesso ha cominciato pure ad agitare il braccio sinistro. Si libra nell’aria, come se volesse disegnare qualcosa sulla volta celeste. Qualcosa di veramente grande, immenso, maestoso.
Ancora un passo, ancora solo un mezzo passo! Cosa vi ho detto? È andato a finire dritto nel precipizio. Che orrore! Sta già precipitando. Per lui è la fine. Amen.
E invece no! Una piccola quercia che si è cacciata in una crepa e si è sviluppata per conto proprio in modo un po’ stentato, diventando per sua ostinazione un alberello vigoroso, lo ha afferrato per la giacchetta. Ecco, ora ciondola dal ramo e ridacchia stupidamente, guardandosi intorno. Il cagnolino invece abbaia dall’alto. Mah, ed ora cosa farà?
Guardatelo, sta già salendo. La roccia si sgretola sotto i suoi piedi, i punti di appoggio sono tutt’altro che sicuri. Tutto sommato, ha avuto fortuna. È già quasi in cima. Ma cosa succede adesso? Perché si sta girando? Cosa sta guardando? E perché sta di nuovo scendendo? È matto forse? O sancta simplicitas, pensate un po’! Su una sporgenza ha scorto una stella alpina, perciò sta discendendo nuovamente per raggiungerla. Riuscirà nell’intento? Ecco, ecco, le è già vicino. Si è inginocchiato e l’accarezza. Adesso si è chinato e l’ha baciata. Vedete come sorride scioccamente? Sorride al fiorellino e sembra gli stia parlando. Sì, gli sta dicendo qualcosa... l’accarezza ancora una volta. Bene, ora si sta alzando, cerca qualche appiglio e risale. Il cagnolino guaisce, probabilmente è felice. Oplà, è già fuori, è sull’orlo del precipizio. Si accovaccia, stringe a sé il cagnolino, lo commisera e gli molla ogni tanto qualche pugno, così, per burla. Ora stanno giocando. È incredibile come il cane durante il gioco cerchi di trascinarlo via dal precipizio. Inavvertitamente lo spinge verso un luogo sicuro. È più saggio del padrone.
Ed ora si allontanano. Il berretto giallo saltella sulla sua testa scompigliata. Il fagottino bianco oscilla come un pendolo, la sua bisaccia rosa rimbalza ad ogni passo sul suo sedere. Le sue orribili scarpe rosse lasciano tracce rossicce sull’erba.
Ma guardate un po’! Saltella da un piede all’altro, se la ride come un matto e canta
Trallalà, trallalà,
una carrozza sulla bianca strada va velocemente
con dentro l’imperatore che russa beatamente.
Prima che scompaia dietro a quella collinetta, dobbiamo affibbiargli un nome. Siete d’accordo? Chiamiamolo: Sfaccendato? Perditempo? Pacioccone? Moto perpetuo? Ridolini? Scioccherello? Zeppelin?
Sento che brontolate e cercate di persuadermi che il nome deve essere ciò che egli è realmente. Mattacchione? Pazzerello? Clown? Arlecchino? No, no, lo so già. Soltanto Pazzerello. Sì, che sia Pazzerello!
* Secondo una leggenda slovena ogni decimo nato, indipendentemente dal sesso, era costretto ad abbandonare la propria casa e vivere da vagabondo.
2
E il Pazzerello felice se ne va in fretta attraverso i campi. Di tanto in tanto fa un saltino, così, come lo fanno i bambini. Cambia il passo, si confonde, cambia il passo nuovamente, riesce ad accordarlo e lancia un grido di giubilo. Però non vede e non sospetta minimamente cosa lo attenda al di là di quella roccia. Là, proprio sulla strada, sta prendendo il sole una vipera stranamente verde e molto velenosa. È di cattivo umore, poiché le dolgono le ossa, la sua età è già alquanto veneranda. È ricolma di terribile veleno, non ha infatti morso nessuno già da lungo tempo. La strada, sulla quale se ne sta distesa, è piuttosto solitaria e poco frequentata.
Il cagnolino del Pazzerello fiuta il pericolo. È inquieto, solleva il muso e rizza le orecchie. Ora cerca di avvertire il suo padrone che non presagisce minimamente il pericolo. Balza davanti a lui e abbaia. Il Pazzerello non lo sente affatto, poiché il suo sguardo si sta perdendo nella visione di meraviglie celestiali: spazia al di sopra delle nuvole, dove la luce si espande come un mare e scorre come un immenso fiume senza rive. La luce si riversa da una nuvola all’altra e, a cascate, fluisce sulla terra. Il Pazzerello, in cuor suo trasformato in gabbiano, allarga le ali e si abbandona a una infinita meraviglia...
Il cagnolino lo afferra di nuovo per i pantaloni e lo tira indietro. Poiché tutto è inutile, lo morde. Il Pazzerello caccia un urlo di dolore, destandosi dai suoi sogni dorati. Stramazza a terra e allora scorge proprio davanti al suo naso la vipera Vecchiona. La vipera, dalla pelle variegata, solleva la testa ed è al colmo della rabbia.
Il Pazzerello non è per nulla impaurito. Pieno di stupore le rivolge parole tenere:
«Oh, oh, cosa fa Sua Grazia sulla mia strada? Perché spaventa il mio cagnolino? Che cosa vuoi dunque, bellezza mia?»
La vipera sbalordita spalanca la bocca. Non riesce a credere che quest’uomo non la tema affatto. Lusinga però la sua vanità il modo con cui l’uomo ha pronunciato le parole: «Bellezza mia!», quelle parole hanno agito su di lei come una dolce carezza e sono come un bicchiere d’acqua fresca nel deserto. L’ira, che qualche momento prima le faceva salire la bava alla bocca, si è calmata per incanto. La tensione è diminuita e con voce ruvida e gutturale gli chiede:
«Mi chiami bellezza mia? Perché dici che sono una bellezza e perché mai: tua?»
«Non sai dunque che sei bella? Guarda com’é snello e perfetto il tuo corpo verde smeraldo. Nessun essere vivente ha una tale bellezza nascosta in una sola linea, in assoluta semplicità. Ricordati come sei nata! Prima di tutto c’era nel nonspazio il nero nulla, poi in questo nulla infinito è nato un minuscolo punto di viva luce, un solo punto, un puntino; questo ha cominciato ad estendersi nell’infinito come un filo argenteo; si è messo ad ondeggiare, ha incominciato ad esistere e sei nata tu: VI, vipera. Guardati insomma! Nella più grande semplicità sei l’essere più perfetto.»
La vipera Vecchiona non poteva assolutamente credergli. Sollevò la testa e così, dall’alto, cominciò ad osservarsi. Dopo un po’ disse:
«In fondo in fondo è vero ciò che dici. Il mio corpo è davvero snello e in questa sua flessuosità è elegante e perfetto. È strano che non lo abbia mai notato. Pensa che durante tutta la mia vita ero convinta di essere brutta, la più brutta su questa terra.»
Era diventata tenera, poi però all’improvviso si scosse e si rabbuiò. E con diffidenza gli chiese:
«Perché hai detto che sono tua?»
«Perché lo sei, infatti mi piaci e ti voglio bene,» rispose.
La vipera fu presa da un grande stupore: «Tu mi vuoi bene? Basilisco santissimo, per quello che io ricordo, gli esseri della tua specie mi hanno sempre perseguitata, aborrita e ammazzata. Tu invece dici che mi vuoi bene. Probabilmente ti prendi gioco di me, non è vero?»
Il Pazzerello le rispose sorridente e perfettamente calmo:
«Se non mi credi, mettimi alla prova.»
La Vecchiona tacque per qualche istante, poi sibilò con astuzia:
«Beh, se davvero mi vuoi bene, allora fammi una carezza! Fammi una bella carezza sul dorso. Va bene?»
Il Pazzerello scoppiò in una risata, dicendo che non si trattava affatto di una cosa tanto particolare. Al suo cagnolino invece, che aveva sentito e visto tutto ciò, si rizzò il pelo. Ringhiava e, terrorizzato, si nascose dietro la schiena dell’amico. Per lo spavento si mise pure a guaire.
Il suo padrone si inginocchiò e stese la mano. Non aveva la minima paura. Neanche un briciolo. Accarezzò dolcemente il corpo snello e scostante della vipera ed anche la sua testa dorata e cornuta.
La vipera ammutolì dalla meraviglia. Nella sua secolare esistenza non era mai successo niente di simile. Non era mai accaduto che un essere vivente non la temesse affatto. Questo balordo invece, non solo non la temeva, ma addirittura sentiva affetto per lei, vedeva chiaramente che le voleva bene. Ciò la commosse fino alle lacrime. Per la prima volta nell’arco dei millenni, da quando esisteva il suo genere, avvenne che la vipera si mettesse a piangere. Le lacrime che scivolavano sulla mano del Pazzerello che la stava accarezzando, si trasformarono in minuscoli cristalli scintillanti come stelle. La vipera gliene versò una manciata e poi gli disse:
«Mettili in tasca, forse ti serviranno. Ora però prosegui il tuo cammino. Hai commosso il mio cuore impietrito. Ho cancellato con le lacrime il mio dolore durato per secoli, ora sono tranquilla e consolata. Non so chi sei, ma chiunque tu sia, che la fortuna ti assista ovunque. Guarda cosa hai fatto. Ho maledetto finora ogni uomo che è passato per di qui, benedico invece te. Oh, cosa mi è capitato negli anni della mia vecchiaia! Sai, mi sento completamente cambiata. Ho paura di non essere più velenosa. Credo che il mio veleno si sia tramutato in latte. Che miracolo, mio caro!»
Il Pazzerello l’accarezzò ancora una volta. Poi le disse di starsene in pace distesa al sole. Oltrepassò il corpo della vipera, mentre il suo cagnolino non ne ebbe il coraggio. Le girò cautamente attorno ringhiando nuovamente contro di lei.
«Ehi, ehi!», gridò la vipera Vecchiona, allorché il Pazzerello era già passato al di là della roccia. «Qual è il tuo nome? Devo saperlo per farlo conoscere a tutte le vipere del mondo. Come ti chiamano?»
Il Pazzerello si meravigliò:
«Qual è il mio nome? A dire il vero, non lo so. Non ho un nome. In generale mi chiamano: Pazzerello. Sono il Pazzerello.»
La vipera annuì col capo. Si arrotolò di nuovo, mettendosi al sole. E anche nel sonno continuò a ripetere con tenerezza: «Pazzerello, Pazzerello, Pazzerello...»
3
Il Pazzerello proseguì la sua strada. Camminò per tutto il giorno e verso sera scorse un grande castello su un colle che sovrastava la città reale di Švikar. Poiché la notte si stava avvicinando, decise che avrebbe pernottato là. La sentinella accanto al ponte levatoio lo osservò per un po’ di tempo con sospetto, lasciando infine passare lui ed anche il suo cagnolino.
Dove andare ora? A sinistra, a destra o diritto? Qualcosa lo spinse a dirigersi verso sinistra e a seguire il proprio intuito. Le vie erano già quasi deserte, gli abitanti ritardatari si stavano affrettando verso le proprie case.
«Dove dormiremo noi due?» chiese il Pazzarello al suo cagnolino. Il cane lo guardò con aria interrogativa, poi scodinzolò, abbaiò in modo significativo e corse su per la via. E il Pazzerello lo seguì. Si fermarono davanti ad un’osteria. Sulla porta in alto pendeva una lanterna, al di sopra di questa un boccale e un grande grappolo in rame.
Mentre il Pazzerello rifletteva se entrare o no, comparve sull’uscio l’ostessa.
«Cosa guardi così sbalordito?» inveì contro di lui.
«Sto guardando proprio te e tu mi riempi di meraviglia,» replicò con tono insolente.
«E perché, se posso chiederlo a Sua Altezza?» chiese con voce minacciosa la petulante ostessa.
«Perché, considerando il tuo cattivo carattere, hai infatti un marito troppo buono,» le rispose ridendo.
L’ostessa afferrò la scopa che stava dietro alla porta e gli corse appresso. Il Pazzerello con un balzo la scansò cominciando a girare intorno al pozzo. La donna agitava la scopa, il Pazzerello si scostava saltando, il cagnolino invece andò a cacciarsi tra le gambe dell’ostessa. Un guardiano notturno stava osservando questo balletto. Per un po’ stette solo a guardare, poi però decise di intervenire. Prese per il collo il Pazzerello e gli ordinò:
«Vieni con me, poiché turbi la quiete notturna e dai fastidio alle persone perbene!»
«E l’ostessa che mi sta molestando e non io lei! Le ho detto ciò che è vero e mi ha assalito con la scopa,» disse cercando di difendersi.
«Silenzio. Dal crepuscolo alla fine della notte, silenzio di tomba!» proferì la sentinella con severità.
Lo accompagnò alla prigione del castello e lo spinse su un mucchio di paglia. Il cagnolino invece rimase fuori, distendendosi davanti alla porta al colmo della tristezza. Dopo un po’ si rassegnò alla sua sorte, appoggiò il capo sulle zampette e guai sommessamente.
Il Pazzerello era felice, avendo trovato infine un luogo in cui passare la notte. La paglia era fresca ed asciutta. Vi si cacciò dentro, addormentandosi ben presto con la coscienza tranquilla.
Quella notte vide in sogno una processione che si stava snodando dalla città fino ad un alto colle, completamente brullo. Stavano portando qualcuno lassù... Lo stesso sogno gli si presentò più volte quella notte.
All’alba si svegliò, accorgendosi di avere molta fame. Rovistò nella bisaccia, nulla. Anche nel suo fagotto non c’era nulla da mettere sotto i denti. Infilò la mano nei pantaloni, nulla. Aveva mangiato la sera precedente tutto ciò che la buona gente gli aveva dato. Si appoggiò al suo bastone d’oro e si alzò. Ora forse vi chiederete stupefatti come mai non gli avessero preso il prezioso bastone, quando lo avevano cacciato in prigione. Il motivo è semplice: avevano visto il bastone, ma non avevano notato che fosse d’oro. Era per tutti un semplice bastone di nocciolo, soltanto il Pazzerello e il suo cane sapevano che era di oro puro...
Nella prigione passeggiava su e giù, dalla porta alla finestra e dalla finestra alla porta. Durante il sonno le sue membra si erano intirizzite, perciò aveva bisogno di un po’ di movimento. Nella tasca della giacchetta, dove aveva infilato le mani per riscaldarle, tastando trovò uno zufolo. Fatto di una canna color giallo oro, aveva dei buchi sulla parte superiore e dei cannelli ai lati, come se là ci fossero degli zufoli più sottili, uno da ogni lato. Si sedette sul mucchio di paglia e accovacciato si mise a suonare. Dallo zufolo scaturirono suoni puri, simili a tremolii e gorgheggi; si effondevano, intrecciavano, ripercuotevano da una parete all’altra fuggendo attraverso la finestra con l’inferriata. Salirono su su fino alla cima della torre, dove li sentì la figlia del re. L’avevano infatti svegliata. Erano talmente carezzevoli e fluenti, dolci come il miele e teneri, che vi porse subito l’orecchio. La esaltarono, portandola al settimo cielo. La principessa chiamò la sua damigella personale e questa a sua volta le guardie; mezz’ora dopo il Pazzerello era già al suo cospetto. Appena la scorse, pregò:
«Fanciulla dal cuore d’oro, dì a questi biechi e malvagi individui che lascino venire da me il mio cagnolino. È fuori, pieno di freddo e affamato. Anch’io ho fame. Hai qualcosa da mettere sotto i denti?»
La principessa sorrise e battè le mani. Il Pazzerello le era subito piaciuto. In attesa della prima colazione, egli dovette suonarle di continuo lo zufolo, mentre lei con il capo assentiva e dissentiva, entusiasmandosi via via sempre di più e meravigliandosi della maestrìa del Pazzerello.
«Cosa vuoi che io ti dia in cambio del tuo zufolo?» chiese allorché cessò di suonare il magico strumento.
«Cosa devi darmi, se te lo regalo...?» scoppiò a ridere il Pazzerello. «Niente. Tanto non vale niente. Eccotelo!»
La principessina fece un salto e mandò un grido di gioia, stringendosi forte forte al petto lo zufolo. In seguito però e all’improvviso si risvegliò in lei un pizzico di vanità che la indusse a chiedergli:
«Dimmi, sono davvero bella? Sono la più bella di tutte? Tu devi saperlo, perché hai girato mezzo mondo.»
Egli la guardò facendo una smorfia e disse:
«Sai, io non ho mai visto una giovane così brutta! Il tuo naso è il doppio del normale, i tuoi occhi sono sporgenti, i tuoi denti sono come quelli di un cavallo, il mento poi è appuntito e troppo prominente. La tua figura invece, aspetta che ti guardi un po’, beh, la tua figura può andare. La verità è che il tuo aspetto esteriore è brutto, ma il tuo intimo emana una tale bellezza, dolcezza e splendore, da farmi rimanere senza fiato.»
La principessina era convinta che il Pazzerello scherzasse a proposito del suo sembiante, perciò si mise a ridere con fare birichino, battè di nuovo le mani e fece una piroetta essendo oltremodo felice.
Fu servita in seguito un’abbondante e ricca colazione: focacce al miele, latte e panna, noce di cocco, banane, arance, mandorle, datteri, dolce alle noci, cotognata, uvetta, cornetti, limonata, the e altre leccornie. Mangiarono, mangiarono e risero, facendo boccacce, masticando rumorosamente, schioccando la lingua e divertendosi da matti. Nel frattempo era arrivato di corsa anche il cagnolino che fece onore alla mensa assieme a loro.
Fino all’ora del pranzo il Pazzerello insegnò alla principessina a suonare lo zufolo. Incredibilmente andò tutto a meraviglia. Era evidente che la natura l’avesse dotata di molta capacità. Imparò con rapidità e nel pomeriggio era già in grado di suonare diciassette arie. Ne era molto orgogliosa e quasi quasi si montò la testa.
Quando nel pomeriggio fu servito il the, comparve anche il re, accompagnato dalla regina e dal suo seguito al completo: dame di corte imbellettate, cortigiani vanagloriosi e servitori pieni di sussiego. Il Pazzerello appena li scorse, rimase a bocca aperta, tese la mano e puntò l’indice sul re e sulla regina, cominciando a darsi colpi sulle ginocchia e ridendo a crepapelle tanto che tutti rimasero di stucco. Guardava ora il re ora la regina e non riusciva a smettere di ridere.
Tutti ammutolirono di fronte a tanta maleducazione che rasentava già l’insolenza. Il ministro per gli affari esteri si accostò al Pazzerello e gli chiese con serietà in tono ufficiale: «Perché stai sganasciandoti dalle risa? Cosa c’è di tanto ridicolo?»
Alla fine il Pazzerello cessò di ridere, ma il suo corpo era ancora scosso da sussulti di ilarità. Quando il ministro gli domandò per la terza volta il motivo delle sue sghignazzate, egli spiegò:
«Non ho mai visto un re così tondo come una palla e neppure una regina così formosa da rasentare il ridicolo. Se almeno fossero vestiti in modo che non si vedessero quegli enormi cuscini e cuscinetti di grasso, ma quei due sono nudi, completamente nudi! Chi non creperebbe dalle risa guardando queste due botticelle e il pisellino del re che è scomparso del tutto nella rotondità del suo pancione; sembra perciò che il re non abbia gli attributi della sua virilità ed è simile a una donna, è tale e quale la regina...»
Ascoltando quelle parole, tutti ammutolirono. Il primo a riprendersi fu il ministro degli esteri. Con voce stridula riuscì a malapena a proferire:
«Nel nome dell’eterno potere del re della Švikarija ti dichiaro all’istante in arresto!»
Le guardie eseguirono subito l’ordine e prima di sera il Pazzerello si ritrovò in quella stessa prigione in cui aveva passato la notte.
«Beh, ora perlomeno non ho fame,» borbottava fra sé, coprendosi con la paglia. Gli era pure di conforto udire gli allegri suoni che arrivavano dalla finestra del piano di sopra, dalla rotonda torre, dove la principessina si divertiva a suonare lo zufolo.
«Non c’è male, davvero non c’è male,» diceva annuendo col capo. «La ragazza ha talento, lo ha senza alcun dubbio. Però soffia troppo forte nello zufolo. Ehi, ragazzina, con più delicatezza, con meno foga, mi hai sentito?» disse cercando di insegnarle da lontano, più che altro mentalmente. Ed effettivamente la fanciulla cominciò a suonare con sentimento e quindi con maggiore sensibilità e attenzione.
La mattina seguente, prima che il sole sorgesse dietro alle colline, il Pazzerello era già fuori dalla prigione e al di là delle mura del castello, era libero. Chiederete, cosa mai sia successo? La principessina aveva avuto pietà di lui ed era venuta a liberarlo. Con lei era arrivato zampettando pure il cagnolino che fu talmente contento dell’incontro da incominciare a guaire e abbaiare allegramente. Ci mancò poco che non rovinasse tutto. Le guardie infatti si svegliarono, ma per fortuna i soldati non avevano voglia di andare a vedere cosa stesse accadendo e ben presto ripresero a russare.
Il Pazzerello e la principessina si congedarono in fondo al giardino del castello, vicino al ponticello d’argento. Lei lo abbracciò confusa e lo baciò in fretta sulle guance, lui invece le accarezzò i capelli e le disse con tono lusinghiero:
«Hai davvero dei bei capelli. Sono morbidi e lisci come seta. E ancor più belli sono i tuoi occhi, come due piccole luci, come due turchesi.»
Voleva baciarlo ancora una volta, ma l’ultimo momento cambiò idea.
Con la chiave aprì la porta del giardino e il Pazzarello si trovò nei campi. Prima di salutarsi definitivamente, le chiese:
«Ehi, ehi, come ti chiami?»
È incredibile, non è vero, che fino a quel momento non le avesse mai chiesto il suo nome. Non l’aveva chiesto veramente. La chiamava semplicemente Principessina e anche Principessina mia. Lei invece l’aveva chiamato fin dall’inizio Pazzerello, come se avesse saputo che quello era il suo vero nome.
«Sono la principessa Esmeralda,» gli confidò in segreto.
«Addio, Esmeralda! Ci vedremo ancora!» le disse voltandosi.
Il sole stava sorgendo, quando egli dai campi agitò il braccio in segno di saluto. Esmeralda gli mandava baci con la mano, confessando a se stessa che il Pazzerello le piaceva e che forse si era innamorata un po’ di lui. Un po’, dunque nulla di serio e di profondo. O forse non era proprio così?
4
Il Pazzerello e il suo piccolo cane riccioluto proseguirono il loro cammino. Il sole non si era ancora levato di cinque spanne, allorché scorsero quella processione che, in sogno, il Pazzerello aveva visto in prigione. Pensava che fosse un funerale e perciò si mise rispettosamente sul ciglio della strada, congiunse le mani, chinò il capo e aspettò. Anche il cagnolino rimase quieto ai piedi del suo padrone. Si accovacciò osservando attento la gente che si stava avvicinando.
In testa alla lunga fila camminava traballando un uomo, sulle cui spalle era stata posta una croce grande e pesante. Era basso di statura e mingherlino, visibilmente stanco a morte. Gocce di sangue coprivano il suo corpo e così pure il suo volto. Era quasi completamente nudo, soltanto i suoi fianchi erano cinti da uno straccio azzurro. Oscillava, stava per cadere, cadeva e poi si risollevava. Attorno a lui i soldati saltellavano e gridavano, percuotendolo ogni volta che crollava sotto il peso. La gente lo seguiva a capo chino borbottando una specie di preghiera.
Quando il Pazzerello si accorse che quello non era un funerale, ma qualcosa di completamente diverso, si destò dallo stato in cui sprofondiamo in presenza di morti e dunque di una bara. Fece un salto, senza pensare a niente e men che meno ai soldati. Quell’uomo che portava la pesante croce sulle sue deboli spalle e che i soldati flagellavano senza pietà, gli fece un’immensa pena.
«O santo cielo, santo cielo!» disse gemendo ed era già vicino a lui. Gli tolse la croce ponendola sulle proprie spalle, sogghignò in faccia ai soldati e alla gente in processione, fece l’occhiolino in modo burlesco al poveraccio, avviandosi per la strada polverosa con la nera croce. Così, con la massima semplicità.
I soldati sbalorditi spalancarono la bocca, ancor più sbigottito era il loro capo, una specie di caporale. La gente in processione ammutolì, senza borbottare più le lunghe litanie trascinate all’infinito.
La processione ondeggiò, come se la terra si fosse messa a tremare.
Infine il caporale si riprese e urlò al Pazzerello:
«Chi sei tu che osi turbare una giusta crocifissione?»
Il Pazzerello lo guardò da sotto la croce e rispose con una grande risata:
«Io sono una nullità assoluta. Sono ciò che ero, ciò che sono e ciò che sarò. Mi hai capito?»
Il caporale naturalmente non aveva capito nulla. Capì con chiarezza solo che quel mendicante, quel matto di un vagabondo, turbava un rito molto significativo e comprese che doveva subito intervenire. Divenne verde dalla bile e gridò ai suoi soldati:
«Flagellatelo! Se vuole soffrire, che soffra pure!»
I soldati si slanciarono subito addosso al Pazzerello. I colpi arrivavano su di lui da ogni parte, in modo duro e crudele. Benché sentisse dolori atroci, non abbandonò la croce. Il suo cagnolino voleva difenderlo, ma uno dei soldati gli assestò un calcio facendolo cadere in un fosso. Continuò tuttavia ad abbaiare, pur non osando avvicinarsi alle loro gambe.
L’uomo che aveva portato prima la croce, gli gridò, mentre lo stavano percuotendo e mentre le fruste lo colpivano sibilando:
«Lascia andare la croce, se vuoi salvarti! Altrimenti ti ammazzeranno!»
Il Pazzerello gli rispose lamentandosi, singhiozzando e sputando sangue:
«Se io cedo, tortureranno di nuovo te. Riposati ora un po’, vedo che sei allo stremo delle tue forze. Porterò io questo celestiale crocifisso fino alla cima del colle.»
La folla che era in processione riprese a pregare a voce alta e sospirando snocciolava litanie e rosari. Al Pazzerello pareva di udirla: «L’orazione e agonia di Gesù nel Getsemani. La flagellazione di Gesù nel pretorio di Pilato...»
Le percosse diventarono sempre più selvagge e sempre più cocenti, ma il Pazzerello non pensò neppure per un attimo di abbandonare la croce. La strada ora era ripida e la croce divenne pesante come fosse di piombo, le sue forze invece si affievolivano sempre più rapidamente. Il sangue gli colava dalla fronte e gli appannava la vista, tanto che vedeva tutto rosso e come in una nebbia.
«Lascia andare la croce, per la tua salvezza!» gli disse di nuovo il Martire.
«Lascia andare la croce o ti ammazzeremo!» urlava il caporale.
«Lascia la croce o altrimenti ti crocifiggeremo!» sibilava la moltitudine.
«No, no e poi no!» rispose con ostinazione. «Non la lascio per tutto l’oro del mondo!»
E fece davvero così, finché non giunse, trascinandosi, alla sommità del brullo colle. Qui successe qualcosa di molto strano. All’improvviso una forza sovrumana e una gioiosa follia si impossessarono del Pazzerello che si mise a ridere a più non posso. Rideva a crepapelle in modo così rumoroso e persuasivo che il riso contagiò prima i soldati, poi il caporale e alla fine tutta la folla. Non riuscivano in alcun modo a trattenersi dal ridere, da quel ridere smodato e pazzo. Si rotolavano per terra, tenendosi la pancia e continuando a ridere senza posa.
Poi a poco a poco il fragore di quelle risa sfrenate si attutì. Seduti per terra si asciugavano le lacrime e prima che avessero potuto riprendersi del tutto, il Pazzerello e il Martire si allontanarono. Il cagnolino li seguì agitando la coda come una sciabola.
«Beh, hai visto dunque!» disse il Martire. «Quella gente là naturalmente mi avrebbe crocifisso di nuovo. Tutti quelli che erano alla processione mi avrebbero messo in croce, glorificando la mia passione piuttosto che la mia risurrezione e la vita eterna. Non vedevano l’ora di godere di nuovo delle mie sofferenze. Uomini indegni e di poca fede! Eppure sono risuscitato dai morti, e con la mia riapparizione, ho dimostrato a tutti che con l’amore ho vinto la croce e la morte, non per me, ma per loro! Ma quelli non vogliono credere! Non credono che io li abbia redenti dal dolore con la mia morte e che abbia aperto loro la porta del paradiso. Poiché non credono e non vogliono credere nella redenzione per mezzo dell’amore, continuano a ripetere su loro stessi questa crocifissione. Come si trattasse di una cosa naturale, continuerebbero a inchiodare sulla croce proprio me che mi sono fatto uomo per loro, diventando uno di loro, in tutto uguale a loro. Se negli uomini ci fosse un solo granellino di fede, sarebbero salvi. Così invece... »
«Chi mai avrebbe pensato qualcosa di simile!» replicò con tristezza il Pazzerello.
Si accorse poi che dal suo corpo erano scomparsi tutti i segni della flagellazione. Sul suo volto, sulle sue braccia, sulle gambe e sulle altre parti del corpo non c’era più la minima traccia delle violenti percosse. Era scomparsa pure la ferita incisa dalla nera croce. Con estrema merviglia continuava a esaminarsi, non riuscendo a credere ai propri occhi. Rivolse allora al Martire uno sguardo interrogativo e costui cercò di spiegargli:
«È il mistero della fede, Pazzerello mio. La prova dell’amore, del coraggio e della fedeltà. Eppure avevo detto agli uomini: Se voi aveste solo un briciolo di fede, grande quanto un granello di senape, muovereste le montagne. La paura invece li paralizza, toglie loro la forza e la capacità di capire un mistero molto semplice: ciò a cui credi con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con la tua mente e con la tua stessa vita, ciò si avvererà! spiegò il Martire, cingendo con il braccio amichevolmente le spalle del Pazzerello e sorridendo. «Gli uomini sanno che la vita del corpo dura solo un istante del tempo infinito, ciononostante ripongono in essa tutta la loro fiducia, sacrificandole tutto. Se almeno avessero imparato a sorridere!»
«Sì, certo, hai ragione. A dire il vero non so bene di che cosa tu stia parlando. Sai, io sono un uomo semplice. La filosofia non è il mio forte. Non ho mai capito i sublimi principi o come tutto ciò viene chiamato. Sai, sono solo un Pazzerello, non è vero?» cercava di scusarsi il vagabndo.
«Oh, lo so, lo so, Tu sei la sancta simplicitas in persona, ma questa tua semplicità ti rende più grande di coloro che si reputano i più profondi pensatori... » gli disse il Martire dandogli un colpetto sulla spalla.
In cima a un alto monte si congedarono. Il Pazzerello scese con il suo cagnolino verso la valle. Non riuscì a vedere in che modo il Martire salisse al cielo. Lo fece in maniera molto semplice. Allargò le braccia, pronunciò ad alta voce un nome e all’istante fu tratto verso l’alto, dove la sua immagine si dissolse nel nulla...
5
A mezzogiorno il Pazzerello giunse presso un fiume, dove alcuni uomini sciacquavano la sabbia per cercarvi granelli d’oro. Passando dall’uno all’altro il Pazzerello chiedeva a ciascuno:
«Che cosa stai facendo? Perché frughi nella sabbia? A cosa ti serve tutto ciò?»
I cercatori d’oro gli rispondevano in vario modo. Gli uni dicevano: «Ragazzo mio, sto cercando granelli d’oro,» Altri si mostravano infastiditi: «Ma non vedi da solo cosa sto facendo? Dove hai gli occhi?» Altri ancora lo cacciavano via arrabbiati: «Lasciami in pace, fila via se non vuoi che prenda in mano il badile!» Altri inveivano contro di lui: «Va’ al diavolo!» Altri ancora dicevano inviperiti: «Sei proprio uno scemo, se non capisci perché faccio questo! L’oro è denaro e il denaro è vita. Se non sai ciò, non sai davvero niente.»
Ben presto tutti si stancarono di lui e allora il Pazzerello per sfuggire alla loro irascibilità e al loro nervosismo, si sedette sotto la chioma fronzuta di un albero, pieno di meraviglia per la loro grande perseveranza e soprattutto per la passione con cui svolgevano il loro lavoro. Faceva caldo, molto caldo e quella gente si abbrustoliva al sole cocente, estraeva la sabbia dal fondo del fiume e la versava nel setaccio, passandola e ripassandola ad occhi spalancati, per vedere se sulla rete fosse rimasto qualcosa di luccicante...
Il Pazzerello non capiva quella gente. «Se raccogliesse così i chicchi di frumento, allora sì sarebbe una cosa ragionevole. Ma questi granelli a cosa mai gli serviranno? Certo sono belli, brillano come stelline, ciò nonostante, ne vale la pena? Io giocherei con questi granelli. Questo sì, ma se per ciò io dovessi sciacquare la sabbia per settimane e settimane e dopo un mese ne avessi solo una manciatina, allora non ci starei proprio in alcun modo!»
Rifletteva così. Il sole scottava, stanco e assonnato si distese all’ombra. Il giaciglio però non era comodo, per questo motivo si alzò avvicinandosi alla riva del fiume. Sollevò una pietra piatta per posarvi sopra il capo, sotto la quale brillava qualcosa di giallo. Si chinò e frugando in ginocchioni - guarda un po’! - trovò un grumo d’oro, grande come una biglia. Lo raccolse, l’avvicinò agli occhi, stupefatto per la sua lucentezza. Frugò ancora e raccolse altri cinque pezzi della stessa grandezza ed anche un po’ più grandi. Mise tutto nella sua bisaccia, portò poi la pietra sotto l’albero, depose sopra il suo fagotto, poggiandovi la testa e addormentandosi beatamente.
Nel sogno che fece in seguito, gli apparve la principessina Esmeralda. Stava alla finestra nella sua torre, gli mandava baci, facendogli cenni e invitandolo a ritornare al castello. Nella continuazione del sogno appariva in cima alle mura di cinta e suonava ora lo zufolo d’argento ora quello d’oro. Allorché suonava quello d’argento, la musica era malinconica, pensierosa e quasi triste, quando invece suonava lo zufolo d’oro la musica diventava allegra, giocosa e ballabile. Il Pazzerello assentiva con cenni del capo ed era soddisfatto, poiché la principessina suonava molto meglio di quanto lo facesse quando egli l’aveva lasciata. Il suo progresso era evidente.
All’improvviso però una voce squillante si fece udire dal cielo. Il Pazzerello volse lo sguardo verso le nuvole, dalle quali il suono proveniva, ma là non c’era nessuno. C’erano soltanto nuvole irradiate dal sole e si udiva una voce che tuonava dall’alto:
«Non costruite per voi altari di pietra lavorata! Con tale pietra non costruite neppure le vostre case. Non posate le vostre mani su opere che io ho creato. Non profanatele, poiché in esse c’è la mia parola! Imitate gli uccelli e gli altri animali e siate come i fiori sul prato. Io che sono colui che è, provvederò a voi e nulla vi mancherà. Se però profanerete le mie creazioni, io vi abbandonerò e per tutti i giorni della vostra vita dovrete provvedere da soli e di tutto sarete voi soli i responsabili.»
Il Pazzerello si svegliò di soprassalto. Il cuore gli batteva forte per la paura e un sudore freddo lo bagnava. Si voltò a guardare i cercatori d’oro, ma questi fingevano di non aver sentito nulla. Non riusciva a capacitarsi perché facessero così, si rivolse perciò a colui che gli era più vicino:
«Ehi, tu! Hai sentito la voce dal cielo che parlava di pietre? L’hai sentita?»
L’omone scuoteva il setaccio, frugava fra i resti e cercava attentamente i pezzetti d’oro. Non badò affatto al Pazzerello. Questi allora parlò di nuovo, ma sempre senza risultato.
Il Pazzerello non riusciva a togliersi dalla mente quella voce possente e risonante come un tuono. guardò la pietra sulla quale poco prima aveva posato la sua testa. La tastò e la prese in mano sollevandola. Non gli pareva affatto una pietra speciale. Era solo un po’ diversa dalle altre. Sembrava tuttavia leggermente oleosa e brillante. Non riusciva a capire ciò che quella voce poco fa aveva detto e cioè come mai in quella pietra potesse esserci La Sua Parola.
Si avvicinò al primo cercatore d’oro e gli domandò se avesse qualcosa da bere. Aveva infatti una gran sete e desiderò intensamente, non si sa perché, un bicchiere di vino.
«Ce l’ho, se hai denaro», gli rispose con noncuranza l’uomo che setacciava la sabbia, senza nemmeno guardarlo.
«Non ho soldi, neanche uno spicciolo», disse il Pazzerello con una certa tristezza.
«Allora non se ne fa niente. Senza soldi niente vino. Ed ora vattene, disgraziato perditempo!» Così lo cacciò via quell’omone dalla lunga barba.
Non avendo ottenuto il vino, si accostò al fiume, si chinò, prese l’acqua con il palmo della mano e se la portò alla bocca. Bevette ciò che aveva attinto e si stupì fortemente, l’acqua non era acqua ma vino. Incredulo scosse il capo e prese su l’acqua di nuovo. anche questa volta l’acqua si trasformò in vino rosso nel suo palmo. E così pure la terza volta. Il Pazzerello non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Non volle però lambicarsi il cervello cercando di indovinare, non faceva parte della sua indole. Mise a tracolla la sua bisaccia, appese al bastone il suo fagotto, chiamò il suo cagnolino e insieme proseguirono il loro cammino.
Camminarono a lungo, quasi fino alla sera. Alla fine apparvero le case della piccola città di Mekiši.
Alcuni bambini stavano giocando vicino a un ruscello. sedevano a gambe incrociate, lanciavano sassolini e li afferravano con abilità. Il ragazzo che si lasciava sfuggire di mano il sassolino, perdeva il gioco.
Il Pazzerello li osservava curioso e sorridente. Dopo un po’ si avvicinò e chiese, come se fosse anche lui un ragazzo, se poteva unirsi a loro. Non avevano nulla in contrario, perciò si sedette in mezzo e cercò nella sua borsa i pezzetti d’oro che aveva trovato sotto la pietra in riva al fiume.
I bambini esclamarono: «Che bei sassolini che hai! Dove li hai trovati?»
«Li ho trovati in riva al fiume,» rispose con indifferenza.
Il Pazzerello non era abile nel gioco e continuava a perdere. I bambini lo prendevano in giro e uno particolarmente furbo propose:
«Ogni volta che perderai, ci darai uno di questi bei sassolini. Sei d’accordo?»
Rispose di sì con un cenno del capo e ogni volta che perdeva giocando con uno qualsiasi di loro, gli dava un pezzetto d’oro. E così continuarono a giocare piacevolmente l’uno dopo l’altro. Quando il gioco finì, al Pazzerello rimase in mano un solo e unico pezzetto d’oro. Era il più grande e il più bello. Lo rimise nella sua bisaccia, non perché si rendesse conto del suo valore, ma solamente perché era il pezzo più lucente e anche il più rotondo, e questo lo rendeva felice come un bambino.
6
La notte stava già calando sul paese, allorché il Pazzerello e il suo cagnolino si avvicinarono ad una fattoria isolata. Il Pazzerello gridò:
«Ehi! C’è qualcuno in casa?»
Da dietro un covone spuntò un ometto mingherlino che nonostante il suo gracile fisico rispose con voce poderosa:
«Quale buon vento ti porta? Hai forse fame e sete e vorresti pernottare da me?»
Aveva infatti subito riconosciuto nel Pazzerello un mendicante e un viaggiatore povero.
Il Pazzerello canticchiò:
«Se potesse essere così gentile, io la pregherei di darmi un tozzo di pane e una tazza di latte.»
L’ometto si chiamava Strapparave. Portava alti stivaloni marron, pantaloni blu ben aderenti, una giacchetta color rosso mattone, che da una parte gli arrivava fino a metà coscia, sul capo gli penzolava un cappuccio marronastro, simile ad un cartoccio. Aveva inoltre una lunga barba ormai quasi tutta grigia. I suoi occhi erano vivaci e chiari come due fuocherelli. Abitava tutto solo in quella casa, coltivava due piccoli campi e un vigneto che era leggermente più grande. Possedeva una mucca, alcune galline e una capra.
Invitò il Pazzerello ad entrare in casa e gli offrì polenta di grano seraceno, latte e un ottimo succo di fragole di bosco. Anch’egli cenò. Quando furono sazi Strapparave chiese al Pazzarello che cosa avesse visto durante il suo cammino e chi avesse incontrato. Il Pazzerello gli raccontò tutto ciò che gli era capitato di vedere negli ultimi tempi. L’ometto lo ascoltava attentamente e in seguito chiese:
«È vero che il nostro re e la nostra regina sono nudi e così tondi come le mie botticelle da vino? È proprio vero?»
Il Pazzerello assentì con il capo e il cagnolino confermò le sue parole abbaiando. Spolpò gli ossi che Strapparave gli aveva gettato sotto il tavolo, rosicchiò tre croste di pane dure come sassi, sorseggiò un po’ di latte di capra e ne fu del tutto felice e soddisfatto.
«Sono nudi entrambi, davvero completamente nudi? » chiese Strapparave al colmo della meraviglia. «E la principessina? È anche lei... »
«Oh, no, questo poi no,» disse il Pazzerello. «La principessina sta imparando a suonare lo zufolo. È veramente molto brava.»
«Suona lo zufolo?» chiese l’ospitale ometto sbalordito.
«Sì, lo zufolo. Adesso ti farò vedere,» disse e tirò fuori dalla giacchetta lo zufolo che si era fabbricato strada facendo, prima di incontrare i ragazzi con i sassolini.
Si mise a suonare la canna magica e continuò a suonare a lungo. La musica che usciva dai fori era così strana e celestiale che Strapparave l’ascoltò a bocca aperta.
«Dove mai hai imparato a suonare così, così... » balbettava l’ometto.
«L’ho imparato dagli uccelli, dalle nubi, dal fiume, dalle cicale, dai grilli, dal vento, dalle onde, dalle pietre... » spiegava il Pazzerello.
«Sì, così cantano gli uccelli. Press’a poco così,» annuiva l’ospite.
Poi andarono a dormire. Il Pazzerello si distese su una panca accanto alla stufa, Strapparave invece sull’unico letto che esisteva in casa. Il cagnolino si accovacciò sotto la panca e così tutti dormirono beatamente fino al mattino.
Dopo aver fatto colazione, il Pazzerello chiese al suo ospite che cosa gli dovesse. Strapparave gli rispose con noncuranza:
«Dammi quella pallina d’oro che hai nella bisaccia e siamo a posto.»
Il Pazzerello era d’accordo per il prezzo del cibo e del pernottamento. Pose sul tavolo la pallina d’oro che gli era ancora rimasta. Strapparave fece un cenno di assenso, prese il dovuto, lo soppesò, fece un altro cenno ancora e poi si salutarono, dicendosi: «Addio!» Il Pazzerello si diresse verso il grande mondo, mentre Strapparave se ne andò sul campo a sarchiare la terra intorno alle rape.
7
Poco dopo aver lasciato la città, si unì per strada al Pazzerello un tale che gli assomigliava molto. Portava un lungo pastrano grigio e sandali ai piedi, una bisaccia gli penzolava sul fianco e aveva pure un bastone. Prima di tutto si salutarono amichevolmente, poi camminarono l’uno accanto all’altro senza parlare. Rimasero così, in silenzio, per una mezz’ora circa, poi l’uomo dal lungo mantello chiese:
«Ti ha lasciato qualche messaggio per me il Martire che tu hai aiutato a portare la croce?»
Il Pazzerello riflettè un po’, quindi si ricordò e rispose:
«Sì, mi ha detto che non era di questo mondo e che stava tornando là da dove era venuto. Ha pure soggiunto che avrei incontrato un uomo quale tu sei e che costui mi avrebbe chiesto ciò che tu mi hai chiesto or ora e che io avrei dovuto rispondergli così:
«Tutto è vento e tutto è un dare la caccia al vento. Con le sue mani l’uomo non può acchiappare il vento e non può neppure prendere e conservare per sempre nessun’altra cosa. I castelli scompaiono senza lasciare traccia, le città si trasformano in sabbia del deserto, l’oro si muta in polvere dell’universo. Non cercare dunque tra le cose che vedono i tuoi occhi, che toccano le tue mani, che fiuta il tuo naso, che assapora la tua lingua, che sente la tua pelle... cerca invece ciò che non ha né nome né forma e che non si tocca, non arriva da nessun luogo, non va verso nessun luogo e non ritorna in nessun luogo.»
Il compagno di strada, annuendo con la testa, pregò il Pazzerello di raccontargli tutto di nuovo. In seguito gli chiese:
«Lo sai qual è la via più corta e nello stesso tempo la più lunga?»
Il Pazzerello, pensando che si trattasse nuovamente di un gioco simile a quello con i sassolini, senza pensarci su disse:
«È quella che porta al cuore.»
Il monaco assentì e poi chiese di nuovo:
«E tu lo sai dov’è nascosto il tesoro?»
Il Pazzerello in tutta fretta rispose:
«Nella mandorla, sotto il suo duro guscio. Nel chicco di grano che muore di buon grado. Nelle mani che donano e nel cuore pietoso che non si aspetta né gratitudine né ricompensa.»
«Sai che cos’è un labirinto e come se ne esce?»
«Il labirinto è il nostro cammino dalla culla alla tomba e ne puoi uscire solo se trovi e accendi in te stesso una piccola luce, se desti in te un’anima che, come una fiammella, ti guiderà con il suo chiarore e ti proteggerà.»
«E che cosa succederebbe, se tutto ciò non riuscisse?»
«Allora ti sbranerebbe il mostro che è nascosto nell’oscurità del tuo labirinto,« disse con calma il Pazzerello.
«Come, nel mio labiritno? Ne ha forse ognuno uno proprio?» esclamò meravigliato il viandante.
«L’ho già detto: il labirinto è il nostro percorso dalla culla alla tomba. E ognuno ne ha uno suo proprio. Non c’è neppure un cammino che sia del tutto uguale ad un altro. Ce ne sono alcuni che sono più facili, altri invece sono più difficili. I labirinti sono piccoli e semplici oppure molto complicati e pieni di tranelli...»
Per un po’ stettero in silenzio. Poi lo sconosciuto interloquì di nuovo:
«Vedo in sogno quasi ogni notte un albero alto, robusto, perfettamente sano e pieno di fiori rosa. Cosa significano questi sogni?«
«L’albero congiunge la terra con il cielo. La terra bacia il cielo e il cielo bacia la terra. È un bacio fra due opposti.«
«Non capisco tutto ciò,» disse l’eremita.
«Guarda e rifletti! Il cielo tocca la terra con le radici dell’albero e la terra tocca il cielo con la sua chioma. Una chioma fiorente vuole significare che la terra anela alla leggerezza. È anche una preghiera incessante dei rami protesi verso il cielo, verso le altitudini. Il cielo esplora con le radici dell’albero l’oscurità della terra e, congiungendosi con questa, crea di continuo nuove vite; nei semi la luce si unisce alle tenebre per dar luogo a una nuova germinazione. L’albero è l’alleanza fra la luce e le tenebre. È un ponte sull’abisso che separa ciò che è visibile e tangibile da ciò che è incomprensibile e inesprimibile.»
Il monaco rimase profondamente assorto nei suoi pensieri. In seguito chiese con voce sommessa:
«Quali sono le tre parole che un padre morto, già nella tomba e coperto di terra, disse al proprio figlio?»
Il Pazzerello frugò nella memoria, ricordò le parole e rispose:
«Il padre disse: Amore, amore, amore, figlio mio!»
«Ma l’uomo vivo ha capito il morto? Ha compreso di quale amore parlava l’uomo dalla tomba?»
«No, non l’ha capito, » rispose con tristezza. «Interpretava l’amore a modo suo e visse in seguito conformemente a quello. »
«E che cosa gli successe? »
«La belva lo dilaniò. L’amore al quale si abbandò, fu un amore ardente e appassionato, che invece di togliere vigore al mostro, glielo accrebbe. »
«E tu sai di quale amore parlasse il padre morto?»
Il Pazzerello fece, in strada, l’atto di nuotare e di ballare, poi, mettendosi a ridere, disse: «Questo tu lo sai meglio di me!»
Il forestiero si fermò. Prese per mano il Pazzerello, fissò il proprio sguardo negli occhi vivaci di lui e gli parlò così:
«Ti ringrazio di ciò che mi hai rivelato. Sai bene che ti ponevo delle domande perché ho smarrito la retta via. Con le tue risposte mi hai dato indicazioni e avvertimeni appropriati. Dimmi, che cosa ti devo?»
Il Pazzerello rimase sbalordito: «Tu sei mio debitore? E di che cosa mai? Non sai che tutto era solo un gioco? Hai forse perso, per dovermi dare qualcosa oppure per caso ho vinto io?»
Lo sconosciuto sorrise porgendo la mano al Pazzerello. Al crocevia girò a sinistra, mentre il Pazzerello si diresse a destra. Il cagnolino, correndo, seguì per un po’ il monaco, ma poi si volse e corse in tutta fretta verso il suo amico.
Nadaljevanje ...