Notte d’agosto del 1947. In autunno il ragazzino andrà in prima elementare. Nel pomeriggio era arrivato in paese il così detto camioncino. Sulla porta della cabina, nella quale era seduto un ometto con baffi, era scritto CINEMA AMBULANTE. La sera la gente si era radunata davanti alla casa più grande in mezzo al villaggio per vedere un film sovietico sulla kolchosiana Ekaterina Andropovna, In paese non c’era nessuna casa tanto grande da potervi proiettare il film. Alla fine l’ometto, chiamato comunemente “cinema ambulante”, aveva scelto per la proiezione la facciata di uno dei casolari del posto.
C’era però un problema: mancando il telone, una finestra con un grande geranio in fiore appariva di continuo in mezzo allo schermo, creando disturbo. La gente non vi badava più di tanto. Al ragazzino invece il fatto eccitava la fantasia. Sullo schermo appariva di frequente Josif Vissarionovic Stalin. Una volta, dalla finestra, fece il suo ingresso anche Josip Broz Tito. Comparve innanzi al suo felice popolo che lo applaudì e sarebbe stato il più fortunato popolo del mondo, se nei vicini campi di patate non tramasse intrighi la dorifora, chiamata dagli sloveni il coleottero del Colorado*. Al ragazzino i fiori sul davanzale davano fastidio, poiché talora uscivano dalla bocca di qualche governante, talora comparivano in mezzo alle sue cosce, talora cingevano come un’aureola qualche santa testa sovietica.
Il ragazzino non capì bene quel film coi gerani. In quella notte estiva stava accanto alla sua mamma beato e fremente di gioia, poiché la porta del santo paradiso si stava spalancando. Per porre termine al feudalesimo, clericalismo e capitalismo, bisognava prima sterminare la dorifora e un’epoca felice e luminosa sarebbe iniziata. Ci fu una pausa, quando l’ometto coi baffi, detto «cinema ambulante», dovette cambiare la bobina, Il popolo lavoratore si mise allore a cantare: «Stalin ha chiamato noi tutti a lottare per i diritti della Russa ed anche della Slovenia. Il fascismo vuole distruggerci, vuole impadronirsi di questa nostra terra. Questo è il momento di alzare la nostra voce e gridare: Viva la Russia, Viva Stalin ed anche Tito».
Il ragazzino era entusiasta poiché apparteneva tutto alla sua mamma, al comunismo e a Tito. Non c’era nessuna dorifora che si stesse arrampicando sulla sua schiena ed anche i reazionari nella casa parrocchiale se ne stavano inattivi. L’unica nemica di classe era per il momento soltanto sua nonna, un po’ sorda e un po’ smemorata, che non era venuta a vedere il film, poiché aveva trascorso quella notte d’agosto pregando, affinché la luce divina rischiarasse le anime.
A scuola, in autunno, il ragazzo conseguì un buon risultato. Lo mandarono poi in città a proseguire gli studi. Crebbe e divenne un uomo con una buona memoria. Nel frattempo Stalin era morto ed era crollata quella casa con il geranio che sovrapponendosi al film, tanto aveva turbato nel fanciullo l’accordo emotivo con i tempi e i luoghi soggetti al comunismo. L’ometto, soprannominato «cinema ambulante», compare ormai solo nei sogni del fanciullo, divenuto uomo. Costui ebbe molte esperienze nel corso della sua vita e scrisse anche parecchio. Non tutto, poiché non si può né si deve scrivere tutto. Durante le notti d’estate, quando stanco di pensare si siede davanti al video ed è il mese di agosto, tempo delle brevi notti estive, quest’uomo sussulta, colto da un vago rimpianto.
Stalin e Tito non compaiono ormai più sullo schermo. Ogni sera altri leader si affollano sul video a vivaci colori. L’agosto del 1947 è per quest’uomo il tempo romantico della sua fanciullezza, che è già storia. Nell’agosto del 1999 l’uomo solitario davanti allo schermo, ossia il ragazzino di una volta che non riusciva a distinguere un dittatore dai gerani, guarda altri governanti onnipotenti e maestosi, circondati da eccessivo splendore, che annunciano il paradiso sulla terra: Clinton, Eltsin, Schröder e altri grandi delle nostre terre... Promettono e incoraggiano.
Che razza di capi sarebbero infatti se non annunciassero il paradiso su questa terra e il regno dei cieli dopo la morte – naturalmente per quelli che ci credono. Nell’agosto del 1999 quest’uomo rimpiange intensamente quella finestra con il geranio in mezzo allo schermo che aveva suscitato tanto santo entusiasmo per i capi e tanto disprezzo per le dorifore. Non ci sono più gerani in mezzo allo schermo. Non c’è nessun fiore che, immobile nel suo eternamente valido messaggio, possa attenuare la luce ingannevole che, forse per una strana idea dello stesso Padreterno, da tempo immemorabile, viene annunciata al mondo da profeti, politici, filosofi e dittatori.
Quella notte d’agosto si sta in qualche modo afflosciando su se stessa. È triste l’uomo davanti al televisore, questa specie di cinema estivo che riflette fedelmente la realtà di questi ultimi mesi del secondo millennio dopo Cristo. Il geranio è sfiorito, la casa è crollata, i vari capi invitano il popolo a pazientare ancora per un po’. L’unica cosa rimasta di quella rappresentazione estiva è la speranza. E la successiva fine delle illusioni pure. È triste quest’uomo, deluso di se stesso e della storia, nella cui realtà non permette più che penetrino la mente e l’anima dei gerani. Ha voglia di piangere e di dormire nello stesso tempo. Sa ormai da molti anni che davvero IL BAMBINO È PADRE DELL’UOMO. Si assopisce per un po’ e all’improvviso si rivede in quella lontana mattinata d’agosto, come un viandante sulla strada del tempo.
Non lo infastidisce più il ricordo di quello spettacolo serale con i governanti, avendo davanti a sé persone di carne e spirito. È felice, rendendosi conto che stare con loro, è anche per lui una condizione di sopravvivenza. I gerani invece continuano a esistere con i loro bei fiori rossi.E simboleggiano l’estate e il tempo. I gerani vanno oltre la storia – sia per i ragazzi che per gli adulti.
* N.d.t.: Durante il regime socialista si facevano vere e proprie campagne contro le dorifere decemlineate, ufficialmente chiamate dagli sloveni i coleotteri del Colorado, essendo molto nocive alla coltivazione delle patate; probabilmente provenienti dal Colorado venivano considerate come un simbolo negativo degli americani.
Sobota, 14 agosto 1999
Dal libro Percezioni dal colle, 2001
COMMERCIO SLOVENO DI CONTRABBANDO,
TEMA DI ATTUALITÀ
La storia Martin Krpan di Fran Levstik affina nei ragazzi il loro modo di esprimersi e rafforza in loro l’orgoglio nazionale. In breve: nei tempi passati capitò a Vienna, durante i suoi vagabondaggi, il tremendo energumeno Brdavs. Fece fuori un gran numero di persone. Compreso il figlio dell’imperatore.. All’imperatore Janez venne allora in mente lo stravagante viaggiatore Martin Krpan, che aveva incontrato una volta durante un suo viaggio nella Carniola. Per scostarsi al passaggio della carrozza imperiale, quest’uomo aveva sollevato come un fuscello la propria cavallina e l’aveva posta in disparte. In quei tempi Krpan, contravvenendo ai regolamenti, trasportava il sale da Trieste. Mentì anche all’imperatore, dicendo che commerciava in pietre da affilare ed esche. "Commercio di contrabbando".
Dopo alcuni anni, essendo Vienna oppressa da gravi tribolazioni, l’imperatore fece chiamare Martin Krpan da Vrh presso Sveta Trojica. Promise che gli avrebbe dato in moglie Jerica, la sua unica figlia, se egli avesse vinto Brdavs. Krpan tagliò il tiglio prediletto dell’imperatrice per farne una clava, con la quale lo avrebbe affrontato. Infatti mozzò la testa al gigante. La popolazione viennese liberata, serviva Martin Krpan e lo ricolmava di doni. Egli però non voleva nulla. Chiese soltanto il permesso di poter contrabbandare il sale da Trieste. Lo ottenne. Glielo mise in mano il ministro Gregor in persona. Che però fece una smorfia consegnando l’autorizzazione al contadinotto e non disse nulla.
Tutti i personaggi da Krpan all’imperatore, da Brdavs all’imperatrice, fatta eccezione per il ministro Gregor, se riflettiamo bene, erano dei tipi scaltri e in certo qual modo corrotti. Tutti si comportavano secondo l’interesse politico ed economico del momento. Il che poteva funzionare per un periodo a breve scadenza, non altrettanto per periodi a lungo termine. L’Austria in effetti si è rimpicciolita tanto da risaltare a malapena sull’atlante. Nella scuola elementare ci parlavano delle imprese mirabolanti di Martin Krpan sorridendo e con aria trionfale. Ci dicevano che era il simbolo della forza, astuzia e tenacia degli sloveni. Mi ricordo che la scolaresca gongolante scoppiava addirittura di entusiasmo e di orgoglio per questo connazionale, che l’imperatore d’Austria in persona aveva una volta tenuto in tanta considerazione.
Ai giorni nostri i fatti stanno così: Martin Krpan era un abile contrabbandiere e un gran bugiardo. L’imperatore Janez non era altro che un uomo estremamente debole che avrebbe consegnato a quello zoticone la sua unica figlia, soltanto per la propria fama e il proprio onore. L’imperatrice era una gran bella donna, però viziata, alla quale rincrebbe molto aver sacrificato un tiglio della corte, benché con quello il contadino della Carniola avesse fatto la clava per uccidere Brdavs. La Cavalleria dell’imperatore era solo un piccolo branco di ronzini ben strigliati e lucidati, che nel giorno di Santo Stefano portava la carrozza con l’imperatore fino alla porta della cattedrale omonima. Fra i personaggi summenzionati non c’era proprio nessuno foriero della nobile mentalità europea, neppure come simbolo. L’unico che nella storia di Krpan fosse già allora pervaso da una certa coscienza europea, alla stregua di un Van den Brueck, era il ministro Gregor. Questi ascoltò a denti stretti le ridicole trovate dell’imperatore, dovute alla sua puerile infatuazione nei riguardi di Martin Krpan da Vrh presso Sveta Trojica nella Carniola.
Non mi occuperei di questa storia, alla quale ho negato qualsiasi simbologia nazionale di difesa, se essa non ponesse tanti interrogativi sulla nostra vanagloria nazionale. Tuttavia, poiché proprio in questo periodo il nostro idillio subalpino-balcanico sta arrivando ad una svolta o ha perfino raggiunto il suo culmine, darò libero sfogo alla mia penna. Non posso farci nulla, ma per me questa storia non è che l’espressione di una dolorosa mancanza di autorealizzazione e di un complesso di inferiorità. Lo so, ciò che prima di tutto mi capiterà a proposito del rituale di questo nostro autocompiacimento nazionale, sarà l’osservazione che io sono uno psichiatra. Ed è risaputo, che persone di tal genere sono tutte, nessuna esclusa, un po’ stravaganti. Poi verrà il turno dei fanatici dell’europeismo. Ognuno a modo suo cercherà di deprezzare questa mia singolare libertà.
Ciononostante, miei cari europei, la libertà e questa storia vanno di pari passo. L’una e l’altra sono come il soffione del tarassaco. Quando l’ape si posa sul soffione, questo si dissolve e per sempre. Anche Martin Krpan, da Vrh presso Sveta Trojica, la cui vicenda fu raccontata una vola da Močilar a Fran Levstik, è un soffione meraviglioso. Martin Krpan narra di tutto un po’. E proprio perché questo capolavoro letterario è formato da tante parti, è fragile e, secondo me, del tutto inadatto a funzionare da propaganda nazionale. È proprio così! A Martin Krpan, come l’ha descritto Fran Levstik, non possiamo né togliere né aggiungere niente, essendo umano alla perfezione. I vari personaggi della storia sono del tutto normali, conformi al tempo e luogo in cui vissero.
Un’Europa in trasformazione in miniatura. Oggi è positivo e valido il ministro Gregor (Van den Brueck), domani lo sarà forse qualche imperatore Janez. Speriamo lo sia una volta anche Martin Krpan da Vrh presso Sveta Trojica. Ma i fatti non promettono bene.
Sobota, 19 gugno 1999
Dal libro Percezioni dal colle, 2001
LA SIBILLA
Stava facendosi buio, allorché la raggiunsi. La vecchia fingeva di conoscermi. Avendo intuito che non le avrei rivolto la parola, poiché avevo paura di lei, mi chiese con freddezza come mai fossi solo, dove fosse la
mamma.
Essendo pieno di spavento, mi scostai un po’ dalla mostruosa figura nera, poi le dissi
che la mamma non c’era più. Era morta. Non lo sapeva? Non la conosceva? io le ero
sottomesso.
- La conoscevo, certo che la conoscevo, e anche molto bene. L’ha forse portata via il
fiume? Si è saputo chi è stato?
Mi intenerii e quando lei mi fece capire con lo sguardo che si vedeva quanto fossi
ingenuo, mi sedetti docile accanto a lei, in mezzo al muschio, sul ciglio della strada.
- Tutto si muove, gli alberi si muovono, il fiume scorre, la città si trasforma, i soldati sono in cammino, noi due ci siamo incontrati, disse la Sibilla piena di mistero e di fascino nello stesso tempo. Senti, ragazzo, qui abita la morte. Ogni volta che passo per di qua, le porto una parola. Hai l’idea di che cosa significhi portare una parola? No, non lo sai, non è vero che non lo sai? Guarda, si fa così: Ti alzi, ti siedi sulle calcagna e poi tracci con la mano un grande cerchio, dev’essere sempre più ampio, come la volta celeste. Poi volgi lo sguardo al cielo e scorgi la luce. Non il sole però, se vedi il sole, sarai dannato e non ci saranno più occasioni per dare qualcosa alla morte, per recarle qualcosa. E poi ripeti: Io ti guardo, mia cara, sii fedele come lo è la notte. Se non si fa sentire, devi fare tutto ancora una volta. Se neppure la terza volta succede nulla, significa che non sei fatto per questo mondo. Quando invece si annuncia, devi dirle prima di tutto, dove sei stato e subito dopo, dove stai andando. Se non ti ascolta, devi tracciare di nuovo un grande cerchio e ripetere tutto. Poi ti dirà, tutto quello che sa. La morte sa tutto. Io faccio sempre con lei questa strada e non è mai successo che non abbia sentito le sue parole. Io dico forza, gente, lei risponde niente. Io le dico santo o benedetto, lei risponde maledetto. Chiacchieriamo insieme notte e giorno e quando sono stanca, per riposarmi, mi siedo accanto a lei e insieme ci assopiamo per un po’. Non so se la morte sogni qualche volta, io non sogno mai nulla. Quando mi sveglio, lei non c’è più. Ma basta che io faccia dieci passi ed ecco che la sento al mio fianco. Tu non la senti? Devi fare così, guarda! Si alzò e tracciò un gran cerchio attorno a sé, si accoccolò e mi disse: Gli uomini sanno tutto, ma la morte evita gli uomini, li evita sempre. Se non mi seguirete, vi sorprenderà furiosa la malasorte che è morte. Hai sentito? Ti ho detto tutto, sei mio o no? Vedo già, un po’ sei mio, un po’ non lo sei. Cerca di non essere mio. Se ciò ti accadrà, la morte ti avrà. Se invece sempre mi apparterrai, nella pace eterna riposerai.
L’ho ascoltata ancora a lungo. La città ai miei piedi era già avvolta nell’oscurità. Anche la vecchia si era ormai fusa con la notte, che piano piano dalle case si era estesa fino al limite del bosco..
Prima di accorgermi della notte e della dolcezza delle stelle che mi inondavano con piccole luci argentee, mi resi conto della più grande verità della mia vita: La Sibilla mi aveva pervaso con il suo spirito, io ero suo e lei mi avrebbe tenuto tra i suoi artigli fino alla morte. E contemporaneamente mi aveva rintracciato quella virtù che è necessaria ed inevitabile per poter essere fedeli a qualcuno.
Mi alzai dal verde tappeto di muschio ed ero solo, essendo diventato io stesso la Sibilla.
(Brano dal libro L’anima del nome, cap. XXV, pagg. 445-446)
ZALKA HLADNIK
Dopo aver trascorso la notte nel redigere verbali, Zalka Hladnik ritornava ogni mattina nella sua abitazione sotto i tetti; questa le era stata concessa, per potervi attendere il conferimento di un’altra abitazione, che le era stata promessa dietro a Bežigrad. Con l’andar del tempo tuttavia queste camere fuori dal mondo divenivano per lei sempre più familiari. Erano infatti, sia per la luce, sia per l’atmosfera antiquata che vi regnava, in tutto simili a quelle in cui era vissuta nella sua casa natale. Il lavoro notturno aveva tolto a questa donna bella e giovanile tutta la luminosità di cui le mattine fanno dono alle persone, quando queste sono ben riposate e disposte o addirittura desiderose di essere come le mattine, poiché emanano esse stesse freschezza e luce; le mattine infatti sono simili a tenere pianticelle. Non era così per Zalka ed anche le sue mattinate non erano fatte di luce e rugiada, ma di tenebre e appassimento.
Trascinandosi su per le scale di legno, era giunta fino alla porta; si era trovata poi in mezzo alla stanza simile a quelle che nei vecchi libri chiamano isbe, aveva riscaldato il latte sul fornello, lo aveva trangugiato in fretta, si era svestita piano piano, aveva coperto la finestra con una tenda scura e si era coricata. Attraverso le fessure penetrava nella stanza la luce che non la disturbava né l’assopiva, ma la faceva riflettere; era infatti così stanca da soffrire d’insonnia.
Ogni mattina era la stessa cosa. La sua disposizione d’animo non dipendeva affatto dal tempo o dalla stagione. E neppure da come avesse passato la notte. Allora si sentiva proprio lei, tutto era lei, Zalka Hladnik.
Aveva chiuso gli occhi, ma un po’ di luce filtrava attraverso le sue palpebre. La luce cercava di convincerla che quelle non erano ore destinate al riposo e al sonno, ma ad un inizio e ad un risveglio. In lei c’erano entrambi, il freddo dell’oblìo e l’alba del risveglio. Le sue mattine, le sue tanto amare mattine la inducevano a chiedersi quando e dove fosse iniziata la sua estraneità. Era tuttavia troppo intorpidita dalla notte e l’oscurità nella camera era talmente grigia e verde che ogni giorno, nella stessa maniera tale circostanza la portava altrove; ciò significa per ognuno abbandonare il mondo e se stessi, beneficio ugualmente desiderato da chi è felice o infelice. Qualcosa si agitava ancora in lei, ma i suoi pensieri si stavano spezzettando, come gli abbozzi dei verbali che lei ricopiava. Alla fine il suo capo aveva accertato che essi non contenevano l’essenziale di quello che egli era venuto a sapere durante l’interrogatorio, ossia il loro contenuto era molto arido e in certi punti simile a delle diffamazioni. Non valeva la pena dunque di far altro che stracciarli e gettarli nella stufa.
I pensieri di Zalka si fusero poi in nient’altro che una vaga sensazione. Questa sentimento era quel fuoco che aveva eliminato gli abbozzi degli interrogatori, che non avevano soddisfatto il suo principale. Zalka sospirò e la sua sensazione alla fine divenne solo colore, roseo e azzurrognolo, anelante a trasformarsi in grigio e questo ad estinguersi nel nulla.
Nel pomeriggio, allorché Zalka si svegliò, la luce che c’era nella stanza era uguale a quella della mattina, in cui si era coricata; ma lei era più consapevole di essere Zalka Hladnik, compilatrice di verbali, la quale seguiva con prontezza gli argomenti e sapeva con la massima precisione dove si era arrivati a delle semplificazioni e a delle diffamazioni.
Mentre Zalka scriveva sulla macchina Olivetti che non aveva i tasti delle consonanti biascicanti e sibilanti, si accorgeva ogni momento dov’era nascosto il senso di quelle domande e dove stava la superficialità di quelle risposte. Queste due cose si intrecciavano l’una all’altra e con la loro scaltrezza intralciavano in tal modo il discorso che in lei nasceva la voglia di collaborare nel processo. Trasalì ricordandosi questa intenzione, poiché lei era li soltanto per ascoltare quei due uomini. Sono qui solo per credere a uno, per fargli cenni di assenso, per ammirarlo; per l’altro invece sono qui per accusarlo, per afferrare il senso delle sue parole e per metterlo al muro come fa l’inquirente, affinché l’imputato confessi tutto.
Confessare che cosa? disse a Zalka una voce interiore. Era quella della mamma. Quando se ne rese conto, la contraddisse, avvicinandosi subito ancora di più all’accusatore, all’ufficiale dell’Ozna* che aveva una certa dolcezza negli occhi, ma era invece molto virile nel portamento, come lo sono gli uomini che attraggono a sé i propri compagni di ideologia con la loro dedizione alla rivoluzione e con la prontezza a sacrificare la propria vita per la libertà.
Riflettendo su tutto ciò, divenne nervosa, e con il pensiero non seguì più l’uomo che aveva vicino, nel quale aveva fiducia e al quale credeva. Scriveva a macchina così come l’uomo le dettava, non la turbavano neppure gli epiteti come ad esempio antistalinista, porco d’un clericale, gentaglia comunista, puttane partigiane...
Era a casa sua, dal nonno Gregor, dalla sorella Marija e si era fermata da Benjamin, era andata in cimitero a visitare le tombe ed era di nuovo giovane e nel bel mezzo della notte. Quando l’interrogato, madido di sudore, cercava di schivare le domande dell’inquisitore con le risposte: Non lo so. Non era lì. Che cosa volete da me? Zalka si trasformava in mattino e in giorno, quei locali divenivano piacevole stanze, piene di fiori e di gioia, di luci magiche e di vicinanze seducenti.
Quando l’inquisitore colpì la testa dell’accusato in modo tale che il sangue gli sgorgò dal naso, Zalka si ritrovò nel vano grigio di una delle cancellerie e non sapeva a che scopo lavorasse e perché fosse proprio là.
*N.d.t.: Reparto di Sicurezza Nazionale.
(Brano dal libro L’anima del nome, cap. XXIII, pagg. 400-401)
GREGOR HLADNIK
La vita che conduceva l’esercito era piena di incognite. In quel momento non aveva importanza sapere se l’imperatore avrebbe vinto o perso, né se l’impero si sarebbe sfasciato in una miriade di nazioni. Il momento richiedeva altre riflessioni, poiché in tempo di guerra anche l’allegria e la gioia, l’amore e il piacere, la vita e la morte assumono un altro valore che nei tempi di pace, irradiati dalla luminosa sicurezza del trono e ricolmi di un ‘infinità di beni prodotti da mani incallite e da cervelli sopraffini.
Nei Carpazi i russi non davano tregua all’esercito imperiale. Quando non avvisavano gli avversari della loro presenza e della loro forza con sparatorie e con saltuari assalti alle trincee fortificate, lo facevano con il canto lento e monotono di canzoni cosacche. Queste lunghe ballate venivano accompagnate da alcune corde di una balalaika stonata, il cui suono tremolante indicava che le dita del suonatore erano intirizzite. I canti strascicati di eventi segreti e intimi dicevano che i cosacchi avevano dalla parte opposta, laggiù lontano, nella loro patria sconfinata, madri e sorelle che avevano dovuto abbandonare in preda ai lupi e ai vagobondi, per ordine del loro barbuto zar. Quando i russi attaccavano gli austriaci questi ultimi si difendevano stringendosi gli uni agli altri e cercavano di tener lontano i selvaggi cosacchi semplicemente urlando e tirando fucilate. Assai spesso riuscivano nello scopo e ancor più spesso accadeva che i soldati dei due eserciti si avvicinassero al massimo fra di loro e gli austriaci, slacciandosi le cinture, agitassero i loro fazzoletti bianchi, come se fosse stato proclamato l’armistizio. I russi urlavano e in seguito spingevano per alcuni giorni innanzi a loro, nell’immensa pianura, i soldati catturati, affidandoli infine ad un altro comando o abbandonandone alcuni in qualche villaggio spopolato, dove le donne schiamazzavano come oche e pensavano che i soldati fossero venuti ad annunciare la fine della guerra. Ogni volta che i militari arrivavano, ed erano georgiani e usbechi inferociti, aspettavano dalle donne e dalle giovani, ed alla fine lo pretendevano con la forza, ciò che a loro maggiormente mancava.
Gli austriaci bonari guardavano con stupore tutto quel rincorrersi tra i fienili e i campi e alla fine anche loro ammiccavano, come per dire che la vita è dappertutto uguale in questo nostro triste mondo.
Sul campo di battaglia - campo per modo di dire, poiché veri campi non c’erano al fronte – i pochi soldati guidati dal sergente Gregor Hladnik, erano svogliati e di cattivo umore. Quando non ascoltavano in silenzio i canti provenienti dalla parte opposta, discutevano a lungo su ciò che sarebbe successo, quando l’ultimo degli Asburgo sarebbe salito al cielo. Se il capitano Božiček fosse venuto a conoscenza di tali riflessioni, avrebbe cercato di far cambiare idea al suo confuso e disorientato esercito, che già allora non era altro che un gregge. Forse avrebbe anche aggiunto qualcosa a ciò che i soldati più fanatici e stufi di tutto stavano discutendo sulla sorte della loro grande, troppo grande patria. Se dall’oriente non avesse cominciato a soffiare un vento gelido
e se poi i soldati non si fossero riscaldati con il rum attorno a dei fuocherelli, qui ci sarebbe stato un fetore insopportabile. Un posto maleodorante, ma accogliente. Già da alcune settimane in questa parte del fronte i russi non molestavano in altro modo che con i loro canti, per far capire che non erano lontani. E che avrebbero attaccato quando il loro zar lo avrebbe deciso. Forse anche i cosacchi arrostivano le patate sul fuoco per giornate intere, ingurgitando rum e sognando come avrebbero potuto infilzare nello spiedo l’imperatore, come lo avrebbero rigirato sulla brace e lo avrebbero irrorato di grasso per farlo dorare meglio. Un tale idillio di guerra una volta non c’era e forse non sarebbe durato per sempre.
Prima di partire per i Carpazi con i suoi soldati, Gregor Hladnik aveva fatto per alcuni mesi esercitazioni militari nelle vicinanze di una delle polverose caserme viennesi. Aveva scribacchiato qualche volta a Helena i suoi saluti, non aveva chiesto notizie dei figli, non sapendo se i suoi saluti sarebbero arrivati alla moglie – egli infatti non aveva mai ricevuto posta. La noia lo faceva dimagrire e gli faceva desiderare un cambiamento qualsiasi – perfino il fronte.
Mentre Gregor si preparava a partire per i Carpazi con i suoi uomini, gli eventi bellici non avevano ancora raggiunto il loro culmine. Gli storici dicono che i Carpazi furono luogo di grandi decisioni. Quanto merito e quanta responsabilità abbia avuto in tali decisioni il feldmaresciallo Boroevitsch, non è importante.
Gregor Hladnik non poteva sapere né tanto meno vedere cosa succedesse sugli altri fronti. Su quello dove egli doveva combattere, c’erano pochi morti. Il merito di ciò era forse anche del capitano Božiček; il quale diceva con gli occhi a tutti quelli che erano in grado di intenderlo, che proprio là, in quel luogo, si preannunciava la più conveniente ed onorevole via d’uscita. Gregor lo sapeva e tanto più lo desiderava che, nell’eventualità di un assalto da parte dei russi con forze preponderanti, tutti i suoi uomini, inclusi lui e il capitano Božiček, si liberassero prontamente dei loro cinturoni.
(Brano tratto dal libro L’anima del nome, cap. I, pagg. 18-19)
rekel boš: odkod pa se tale oglaša, ko pa ni bilo o njej ne duha ne sluha že celo večnost? In niti na ljubezniva pisma ne odgovarja več, še to lepo navado je s časom zgubila. In imaš prav. Pišem ti že... nekaj let; ker ne arhiviram pisem, na katera nisem še odgovorila, med goro pošte mi tudi tvoje pismo dela gnečo na že itak preobloženi delovni mizi in budi slabo vest.
Hvala za vse lepe besede, ki si mi jih napisal in nanje najbrž že davno pozabil. Nič ne de, jaz se jih spominjam in jih lahko celo preberem, ko se mi zahoče po kakšni pohvali. V zvezi z zbornikom. No, zdaj počasi pripravljam drugi del, čeprav ni od združenja, ki gre, se bojim, zaradi nenadne letargije in malenkostnih »članskih« nesporazumov v franže, nobenih spodbud in resnične volje, da bi kaj postorili. Pomaga mi pri prevajanju proze prijateljica še iz otroških let, ki sicer živi v Trevisu, a pride večkrat v Sežano k sestri.
Od mene se je nalezla navdušenja za prevajanje, tako da, ko pride k nam na obisk, po obveznem čajčku in klepetu, zajdeva neizbežno v prevajalske vode. Jaz ji seveda sekundiram in med pozornim branjem in razvozlavanjem dvoumnih mest, navadno tudi nadrukam prevode na računalnik, da gre vsa stvar hitreje in lagodneje od rok. No, prevedla je tvojo Romanco in tvoj Šverc komerc iz Sobote. Prav v Šverc komercu (19. junija 1999) je naletela na izraz nabodrenost, in ker ji tudi jaz nisem znala razložiti, kaj pravzaprav pomeni, sem ji rekla, da te bom vprašala. In evo me tu, da te vprašam.
je kaj v zvezi z bodrostjo?
Z nabuhlostjo?
Ne?
S čim?
Kaj pomeni potemtakem?
Pa še eno prošnjo imam. Ker je vsakemu avtorju dodeljeno določeno število strani, ali bi ti izbral in mi poslal fotokopijo kakšne svoje zelo kratke zgodbe, največ dve strani? Ali pa kakšen zaključen fragment daljše zgodbe, a nekaj z glavo in repom, ne zgolj odlomek, ker se odlomki ne obnesejo? Bila bi ti zelo hvaležna.
Upam, da mi boš odgovoril takoj, ali vsaj kmalu, da se ne boš šel oko za oko in zob za zob. Ne pozabi, da živim zadnja leta precej naporno življenje in da visi vse fizično in psihično in vsakršno delo le na mojih že zelo sključenih ramenih.
Gledala sem te že davno, v krogu kar neštetih znancev, sorodnikov etc, na TV. Zelo lepa oddaja, tako lepa, da sem privabila k televizorju vse domače in tudi nekaj sosedov in si z njimi ogledala z enakim zanimanjem ponovitev. Z neznanskim užitkom vseh.
Prav lep pozdrav in lepo se imej(te)
Sežana, 18. septembra 2001
Sežana, sobota 10. XI.2001
Dragi Jože,
zadnjič si moj klic »pošlji« bral narobe. Nič učiteljskega ni bilo v njem, nobene grožnje za kakšen opomin ali ukor, le voda mi je tekla v grlo, ker se je že najavila tvoja prevajalka iz Trevisa in sem ji hotela dati še manjkajoče strani v prevajanje. Brez njih bi se vse skupaj zavleklo in zakasnilo vsaj za en mesec, jaz pa sem najbolj mirna, ko imam vse lepo korigirano in lektorirano v računalniku, kar je še v božjih rokah, me prej vznemirja kot pomirja. No, ko se človeku mudi, nima časa, kot bi rekla neka moja rojanska prijateljica, za... mici-moci (beri miči-moči), ki v tržaščini sicer pomeni, človeka, ki nosi očala (mici-moci ali cici-boci, quatro oci), a v njenem osebnem žargonu pomeni, da se ne zgublja z odvečnimi besednimi okraski, marveč gre naravnost ali celo po krajšnjici k problemu, ki ga žuli.
Hvala za knjigi, obe sva se ju iz srca razveselili. Jaz vzela tisto s posvetilom Jolki, njej pa dala tisto s posvetilom brez imena, češ ne ve še za tvoje ime. Bila je presrečna, ker te zelo visoko ceni in ji je všeč, kako pišeš, čeprav ji to dejstvo ne olajša delo, ker se greš občutke in nianse in odtenke, kar ni najlažje pri poustvaritvi atmosfere. Že naslednji dan, - prej je prebrala vse doma - mi je predlagala bralno popoldne, v katerem sva prebrali vse tiste dele, ki si jih označil in marsikateri pasus tudi podrobno razčlenjevali in prediskutirali.
A to pismo ni samo zahvalno. Jaz bi bila sposobna se ti zahvaliti prihodnje leto, ko pa me čas (njegovo pomanjkanje) tako neusmiljeno pesti! Upajoč, da veš, da sodim med hvaležna bitja in... pasje zveste osebe, skratka, da ni molk znak neotesanosti. No, moram te vprašati nekaj malenkosti. V zvezi s kratko notico o avtorju, ki je v zborniku na čelu izvirnih in prevedenih strani:
Podatke sem zajemala iz Bajtovega Slovenskega kdo je kdo. Je Drago vse napisal? Če ni, dodaj. Po Divjem jezeru ali... si še kaj knjižno objavil? Naštej. O Zaznavah z griča sem brala danes v Soboti (v pismu si mi že ti omenil sicer), a že tu je
nastalo drobceno vprašanje: grič z malo ali veliko začetnico?
Pri Bajtu piše, da si se rodil v Spodnji Idriji. Kaj ni zadosti v Idriji? Če bi se rodil v Ljubljani, bi potemtakem moralo pisati, da si zagledal luč sveta v Šiški ali v Trnovem?
Knjiga Rimska cesta. Je mišljena galaksija (Via Lattea) ali gre prav za cesto (Via Roma)? Ti se kar smej, a prav pri teh drobnarijah ga prevajalec najlažje lomi. Zdaj kar osem ali devet prevajalcev prevajamo dvanajst Pavčkovih pesmi. On omenja jagode (pri molku), po italijansko se jim reče grani (tudi v francoščini in španščini graines-granos), no, tako v francoščini kot v španščini sta prevajalca mislila tiste rdeče slastne sadeže, ki se jih redko kdo brani. Idem pri šmarnici. Oba sta mislila, da gre za cvetko (mughetto), ne pa za dolenjsko in štajersko trto. Pred leti je dva topla bratca
zamejski prevajalec prevedel Rožancu v due caldi fratellini, ker ni vedel, da tako pravimo pri nas pederjem, moral bi pa napisati due froci. O takih kozlih bi ti lahko še in še pripovedovala. Bereš malo manj zbrano in naslaja prebereš in prevedeš naslanja in dokraja spremeniš pomen zaključnega verza. To se je zgodilo prevajalki v francoščino, na srečo šele na rokopisu in ne v knjigi. Zoltanu Janu se je marsikateri contatto (stik, dotik itd) v zadnjih dveh knjigah preobrazil v contratto (pogodba). Zgodi se, živim in nihče ni pred tem imun, niti podpisana.
Knjiga Preklic izrednega stanja. To izredno stanje je v zvezi z vojno?
In to je vse.
Prav prisrčen pozdrav tebi in vsem pri hiši
Sežana, 28. maja 2002-05-28
Založniku
ČZP Primorske novice d.o.o.
Ulica OF 12
6000 KOPER
Spoštovani izdajatelj in založnik ,
vljudno vas prosim v svojem imenu in v imenu Združenja književnikov Primorske, da nam
dovolite objaviti v drugem delu društvenega zbornika Tja in nazaj-Andata e ritorno, ki ga že dlje časa
načrtujemo in tudi že pripravljamo, do tiska pa še ni prišlo zaradi – samoposebi umevno, kar večnega
refraina, ki se imenuje pomanjkanje sredstev - dva zapisa (ali največ tri) Jožeta Felca iz Zaznav z griča
(knjiga je izšla leta 2001 v Kopru), in sicer v izvirniku in italijanskem prevodu.
Na predstavitvi knjige v Sežani mi je bilo izrecno rečeno, da nam boste izdali pisno dovoljenje, a ker ga doslej nisem še prejela, vas prosim, da mi ga po možnosti čimprej dostavite, da pač zvem pri čem smo. Kolikor bi se namreč medtem iz neznanih razlogov premislili, bi morala že prevedena premišljevanja umakniti (tretje pa sploh odmisliti) in ju nadomestiti z objavami, ki niso vezane na kakršnokoli založniško dovoljenje.
Z upanjem na vaš pisni pristanek vas prav lepo pozdravljam
jolka milič
glavna prevajalka in urednica zbornika
Jolka Milič
Partizanska cesta 14
6210 SEŽANA
ROMANZA
Notte d’agosto del 1947. In autunno il ragazzino andrà in prima elementare. Nel pomeriggio era arrivato in paese il così detto camioncino. Sulla porta della cabina, nella quale era seduto un ometto con baffi, era scritto CINEMA AMBULANTE. La sera la gente si era radunata davanti alla casa più grande in mezzo al villaggio per vedere un film sovietico sulla kolchosiana Ekaterina Andropovna, In paese non c’era nessuna casa tanto grande da potervi proiettare il film. Alla fine l’ometto, chiamato comunemente “cinema ambulante”, aveva scelto per la proiezione la facciata di uno dei casolari del posto.
C’era però un problema: mancando il telone, una finestra con un grande geranio in fiore appariva di continuo in mezzo allo schermo, creando disturbo. La gente non vi badava più di tanto. Al ragazzino invece il fatto eccitava la fantasia. Sullo schermo appariva di frequente Josif Vissarionovic Stalin. Una volta, dalla finestra, fece il suo ingresso anche Josip Broz Tito. Comparve innanzi al suo felice popolo che lo applaudì e sarebbe stato il più fortunato popolo del mondo, se nei vicini campi di patate non tramasse intrighi la dorifora, chiamata dagli sloveni il coleottero del Colorado*. Al ragazzino i fiori sul davanzale davano fastidio, poiché talora uscivano dalla bocca di qualche governante, talora comparivano in mezzo alle sue cosce, talora cingevano come un’aureola qualche santa testa sovietica.
Il ragazzino non capì bene quel film coi gerani. In quella notte estiva stava accanto alla sua mamma beato e fremente di gioia, poiché la porta del santo paradiso si stava spalancando. Per porre termine al feudalesimo, clericalismo e capitalismo, bisognava prima sterminare la dorifora e un’epoca felice e luminosa sarebbe iniziata. Ci fu una pausa, quando l’ometto coi baffi, detto «cinema ambulante», dovette cambiare la bobina, Il popolo lavoratore si mise allore a cantare: «Stalin ha chiamato noi tutti a lottare per i diritti della Russa ed anche della Slovenia. Il fascismo vuole distruggerci, vuole impadronirsi di questa nostra terra. Questo è il momento di alzare la nostra voce e gridare: Viva la Russia, Viva Stalin ed anche Tito».
Il ragazzino era entusiasta poiché apparteneva tutto alla sua mamma, al comunismo e a Tito. Non c’era nessuna dorifora che si stesse arrampicando sulla sua schiena ed anche i reazionari nella casa parrocchiale se ne stavano inattivi. L’unica nemica di classe era per il momento soltanto sua nonna, un po’ sorda e un po’ smemorata, che non era venuta a vedere il film, poiché aveva trascorso quella notte d’agosto pregando, affinché la luce divina rischiarasse le anime.
A scuola, in autunno, il ragazzo conseguì un buon risultato. Lo mandarono poi in città a proseguire gli studi. Crebbe e divenne un uomo con una buona memoria. Nel frattempo Stalin era morto ed era crollata quella casa con il geranio che sovrapponendosi al film, tanto aveva turbato nel fanciullo l’accordo emotivo con i tempi e i luoghi soggetti al comunismo. L’ometto, soprannominato «cinema ambulante», compare ormai solo nei sogni del fanciullo, divenuto uomo. Costui ebbe molte esperienze nel corso della sua vita e scrisse anche parecchio. Non tutto, poiché non si può né si deve scrivere tutto. Durante le notti d’estate, quando stanco di pensare si siede davanti al video ed è il mese di agosto, tempo delle brevi notti estive, quest’uomo sussulta, colto da un vago rimpianto.
Stalin e Tito non compaiono ormai più sullo schermo. Ogni sera altri leader si affollano sul video a vivaci colori. L’agosto del 1947 è per quest’uomo il tempo romantico della sua fanciullezza, che è già storia. Nell’agosto del 1999 l’uomo solitario davanti allo schermo, ossia il ragazzino di una volta che non riusciva a distinguere un dittatore dai gerani, guarda altri governanti onnipotenti e maestosi, circondati da eccessivo splendore, che annunciano il paradiso sulla terra: Clinton, Eltsin, Schröder e altri grandi delle nostre terre... Promettono e incoraggiano.
Che razza di capi sarebbero infatti se non annunciassero il paradiso su questa terra e il regno dei cieli dopo la morte – naturalmente per quelli che ci credono. Nell’agosto del 1999 quest’uomo rimpiange intensamente quella finestra con il geranio in mezzo allo schermo che aveva suscitato tanto santo entusiasmo per i capi e tanto disprezzo per le dorifore. Non ci sono più gerani in mezzo allo schermo. Non c’è nessun fiore che, immobile nel suo eternamente valido messaggio, possa attenuare la luce ingannevole che, forse per una strana idea dello stesso Padreterno, da tempo immemorabile, viene annunciata al mondo da profeti, politici, filosofi e dittatori.
Quella notte d’agosto si sta in qualche modo afflosciando su se stessa. È triste l’uomo davanti al televisore, questa specie di cinema estivo che riflette fedelmente la realtà di questi ultimi mesi del secondo millennio dopo Cristo. Il geranio è sfiorito, la casa è crollata, i vari capi invitano il popolo a pazientare ancora per un po’. L’unica cosa rimasta di quella rappresentazione estiva è la speranza. E la successiva fine delle illusioni pure. È triste quest’uomo, deluso di se stesso e della storia, nella cui realtà non permette più che penetrino la mente e l’anima dei gerani. Ha voglia di piangere e di dormire nello stesso tempo. Sa ormai da molti anni che davvero IL BAMBINO È PADRE DELL’UOMO. Si assopisce per un po’ e all’improvviso si rivede in quella lontana mattinata d’agosto, come un viandante sulla strada del tempo.
Non lo infastidisce più il ricordo di quello spettacolo serale con i governanti, avendo davanti a sé persone di carne e spirito. È felice, rendendosi conto che stare con loro, è anche per lui una condizione di sopravvivenza. I gerani invece continuano a esistere con i loro bei fiori rossi.E simboleggiano l’estate e il tempo. I gerani vanno oltre la storia – sia per i ragazzi che per gli adulti.
* N.d.t.: Durante il regime socialista si facevano vere e proprie campagne contro le dorifere decemlineate, ufficialmente chiamate dagli sloveni i coleotteri del Colorado, essendo molto nocive alla coltivazione delle patate; probabilmente provenienti dal Colorado venivano considerate come un simbolo negativo degli americani.
Sobota, 14 agosto 1999
Dal libro Percezioni dal colle, 2001
COMMERCIO SLOVENO DI CONTRABBANDO,
TEMA DI ATTUALITÀ
La storia Martin Krpan di Fran Levstik affina nei ragazzi il loro modo di esprimersi e rafforza in loro l’orgoglio nazionale. In breve: nei tempi passati capitò a Vienna, durante i suoi vagabondaggi, il tremendo energumeno Brdavs. Fece fuori un gran numero di persone. Compreso il figlio dell’imperatore.. All’imperatore Janez venne allora in mente lo stravagante viaggiatore Martin Krpan, che aveva incontrato una volta durante un suo viaggio nella Carniola. Per scostarsi al passaggio della carrozza imperiale, quest’uomo aveva sollevato come un fuscello la propria cavallina e l’aveva posta in disparte. In quei tempi Krpan, contravvenendo ai regolamenti, trasportava il sale da Trieste. Mentì anche all’imperatore, dicendo che commerciava in pietre da affilare ed esche. "Commercio di contrabbando".
Dopo alcuni anni, essendo Vienna oppressa da gravi tribolazioni, l’imperatore fece chiamare Martin Krpan da Vrh presso Sveta Trojica. Promise che gli avrebbe dato in moglie Jerica, la sua unica figlia, se egli avesse vinto Brdavs. Krpan tagliò il tiglio prediletto dell’imperatrice per farne una clava, con la quale lo avrebbe affrontato. Infatti mozzò la testa al gigante. La popolazione viennese liberata, serviva Martin Krpan e lo ricolmava di doni. Egli però non voleva nulla. Chiese soltanto il permesso di poter contrabbandare il sale da Trieste. Lo ottenne. Glielo mise in mano il ministro Gregor in persona. Che però fece una smorfia consegnando l’autorizzazione al contadinotto e non disse nulla.
Tutti i personaggi da Krpan all’imperatore, da Brdavs all’imperatrice, fatta eccezione per il ministro Gregor, se riflettiamo bene, erano dei tipi scaltri e in certo qual modo corrotti. Tutti si comportavano secondo l’interesse politico ed economico del momento. Il che poteva funzionare per un periodo a breve scadenza, non altrettanto per periodi a lungo termine. L’Austria in effetti si è rimpicciolita tanto da risaltare a malapena sull’atlante. Nella scuola elementare ci parlavano delle imprese mirabolanti di Martin Krpan sorridendo e con aria trionfale. Ci dicevano che era il simbolo della forza, astuzia e tenacia degli sloveni. Mi ricordo che la scolaresca gongolante scoppiava addirittura di entusiasmo e di orgoglio per questo connazionale, che l’imperatore d’Austria in persona aveva una volta tenuto in tanta considerazione.
Ai giorni nostri i fatti stanno così: Martin Krpan era un abile contrabbandiere e un gran bugiardo. L’imperatore Janez non era altro che un uomo estremamente debole che avrebbe consegnato a quello zoticone la sua unica figlia, soltanto per la propria fama e il proprio onore. L’imperatrice era una gran bella donna, però viziata, alla quale rincrebbe molto aver sacrificato un tiglio della corte, benché con quello il contadino della Carniola avesse fatto la clava per uccidere Brdavs. La Cavalleria dell’imperatore era solo un piccolo branco di ronzini ben strigliati e lucidati, che nel giorno di Santo Stefano portava la carrozza con l’imperatore fino alla porta della cattedrale omonima. Fra i personaggi summenzionati non c’era proprio nessuno foriero della nobile mentalità europea, neppure come simbolo. L’unico che nella storia di Krpan fosse già allora pervaso da una certa coscienza europea, alla stregua di un Van den Brueck, era il ministro Gregor. Questi ascoltò a denti stretti le ridicole trovate dell’imperatore, dovute alla sua puerile infatuazione nei riguardi di Martin Krpan da Vrh presso Sveta Trojica nella Carniola.
Non mi occuperei di questa storia, alla quale ho negato qualsiasi simbologia nazionale di difesa, se essa non ponesse tanti interrogativi sulla nostra vanagloria nazionale. Tuttavia, poiché proprio in questo periodo il nostro idillio subalpino-balcanico sta arrivando ad una svolta o ha perfino raggiunto il suo culmine, darò libero sfogo alla mia penna. Non posso farci nulla, ma per me questa storia non è che l’espressione di una dolorosa mancanza di autorealizzazione e di un complesso di inferiorità. Lo so, ciò che prima di tutto mi capiterà a proposito del rituale di questo nostro autocompiacimento nazionale, sarà l’osservazione che io sono uno psichiatra. Ed è risaputo, che persone di tal genere sono tutte, nessuna esclusa, un po’ stravaganti. Poi verrà il turno dei fanatici dell’europeismo. Ognuno a modo suo cercherà di deprezzare questa mia singolare libertà.
Ciononostante, miei cari europei, la libertà e questa storia vanno di pari passo. L’una e l’altra sono come il soffione del tarassaco. Quando l’ape si posa sul soffione, questo si dissolve e per sempre. Anche Martin Krpan, da Vrh presso Sveta Trojica, la cui vicenda fu raccontata una vola da Močilar a Fran Levstik, è un soffione meraviglioso. Martin Krpan narra di tutto un po’. E proprio perché questo capolavoro letterario è formato da tante parti, è fragile e, secondo me, del tutto inadatto a funzionare da propaganda nazionale. È proprio così! A Martin Krpan, come l’ha descritto Fran Levstik, non possiamo né togliere né aggiungere niente, essendo umano alla perfezione. I vari personaggi della storia sono del tutto normali, conformi al tempo e luogo in cui vissero.
Un’Europa in trasformazione in miniatura. Oggi è positivo e valido il ministro Gregor (Van den Brueck), domani lo sarà forse qualche imperatore Janez. Speriamo lo sia una volta anche Martin Krpan da Vrh presso Sveta Trojica. Ma i fatti non promettono bene.
Sobota, 19 gugno 1999
Dal libro Percezioni dal colle, 2001
LA SIBILLA
Stava facendosi buio, allorché la raggiunsi. La vecchia fingeva di conoscermi. Avendo intuito che non le avrei rivolto la parola, poiché avevo paura di lei, mi chiese con freddezza come mai fossi solo, dove fosse la
mamma.
Essendo pieno di spavento, mi scostai un po’ dalla mostruosa figura nera, poi le dissi
che la mamma non c’era più. Era morta. Non lo sapeva? Non la conosceva? io le ero
sottomesso.
- La conoscevo, certo che la conoscevo, e anche molto bene. L’ha forse portata via il
fiume? Si è saputo chi è stato?
Mi intenerii e quando lei mi fece capire con lo sguardo che si vedeva quanto fossi
ingenuo, mi sedetti docile accanto a lei, in mezzo al muschio, sul ciglio della strada.
- Tutto si muove, gli alberi si muovono, il fiume scorre, la città si trasforma, i soldati sono in cammino, noi due ci siamo incontrati, disse la Sibilla piena di mistero e di fascino nello stesso tempo. Senti, ragazzo, qui abita la morte. Ogni volta che passo per di qua, le porto una parola. Hai l’idea di che cosa significhi portare una parola? No, non lo sai, non è vero che non lo sai? Guarda, si fa così: Ti alzi, ti siedi sulle calcagna e poi tracci con la mano un grande cerchio, dev’essere sempre più ampio, come la volta celeste. Poi volgi lo sguardo al cielo e scorgi la luce. Non il sole però, se vedi il sole, sarai dannato e non ci saranno più occasioni per dare qualcosa alla morte, per recarle qualcosa. E poi ripeti: Io ti guardo, mia cara, sii fedele come lo è la notte. Se non si fa sentire, devi fare tutto ancora una volta. Se neppure la terza volta succede nulla, significa che non sei fatto per questo mondo. Quando invece si annuncia, devi dirle prima di tutto, dove sei stato e subito dopo, dove stai andando. Se non ti ascolta, devi tracciare di nuovo un grande cerchio e ripetere tutto. Poi ti dirà, tutto quello che sa. La morte sa tutto. Io faccio sempre con lei questa strada e non è mai successo che non abbia sentito le sue parole. Io dico forza, gente, lei risponde niente. Io le dico santo o benedetto, lei risponde maledetto. Chiacchieriamo insieme notte e giorno e quando sono stanca, per riposarmi, mi siedo accanto a lei e insieme ci assopiamo per un po’. Non so se la morte sogni qualche volta, io non sogno mai nulla. Quando mi sveglio, lei non c’è più. Ma basta che io faccia dieci passi ed ecco che la sento al mio fianco. Tu non la senti? Devi fare così, guarda! Si alzò e tracciò un gran cerchio attorno a sé, si accoccolò e mi disse: Gli uomini sanno tutto, ma la morte evita gli uomini, li evita sempre. Se non mi seguirete, vi sorprenderà furiosa la malasorte che è morte. Hai sentito? Ti ho detto tutto, sei mio o no? Vedo già, un po’ sei mio, un po’ non lo sei. Cerca di non essere mio. Se ciò ti accadrà, la morte ti avrà. Se invece sempre mi apparterrai, nella pace eterna riposerai.
L’ho ascoltata ancora a lungo. La città ai miei piedi era già avvolta nell’oscurità. Anche la vecchia si era ormai fusa con la notte, che piano piano dalle case si era estesa fino al limite del bosco..
Prima di accorgermi della notte e della dolcezza delle stelle che mi inondavano con piccole luci argentee, mi resi conto della più grande verità della mia vita: La Sibilla mi aveva pervaso con il suo spirito, io ero suo e lei mi avrebbe tenuto tra i suoi artigli fino alla morte. E contemporaneamente mi aveva rintracciato quella virtù che è necessaria ed inevitabile per poter essere fedeli a qualcuno.
Mi alzai dal verde tappeto di muschio ed ero solo, essendo diventato io stesso la Sibilla.
(Brano dal libro L’anima del nome, cap. XXV, pagg. 445-446)
ZALKA HLADNIK
Dopo aver trascorso la notte nel redigere verbali, Zalka Hladnik ritornava ogni mattina nella sua abitazione sotto i tetti; questa le era stata concessa, per potervi attendere il conferimento di un’altra abitazione, che le era stata promessa dietro a Bežigrad. Con l’andar del tempo tuttavia queste camere fuori dal mondo divenivano per lei sempre più familiari. Erano infatti, sia per la luce, sia per l’atmosfera antiquata che vi regnava, in tutto simili a quelle in cui era vissuta nella sua casa natale. Il lavoro notturno aveva tolto a questa donna bella e giovanile tutta la luminosità di cui le mattine fanno dono alle persone, quando queste sono ben riposate e disposte o addirittura desiderose di essere come le mattine, poiché emanano esse stesse freschezza e luce; le mattine infatti sono simili a tenere pianticelle. Non era così per Zalka ed anche le sue mattinate non erano fatte di luce e rugiada, ma di tenebre e appassimento.
Trascinandosi su per le scale di legno, era giunta fino alla porta; si era trovata poi in mezzo alla stanza simile a quelle che nei vecchi libri chiamano isbe, aveva riscaldato il latte sul fornello, lo aveva trangugiato in fretta, si era svestita piano piano, aveva coperto la finestra con una tenda scura e si era coricata. Attraverso le fessure penetrava nella stanza la luce che non la disturbava né l’assopiva, ma la faceva riflettere; era infatti così stanca da soffrire d’insonnia.
Ogni mattina era la stessa cosa. La sua disposizione d’animo non dipendeva affatto dal tempo o dalla stagione. E neppure da come avesse passato la notte. Allora si sentiva proprio lei, tutto era lei, Zalka Hladnik.
Aveva chiuso gli occhi, ma un po’ di luce filtrava attraverso le sue palpebre. La luce cercava di convincerla che quelle non erano ore destinate al riposo e al sonno, ma ad un inizio e ad un risveglio. In lei c’erano entrambi, il freddo dell’oblìo e l’alba del risveglio. Le sue mattine, le sue tanto amare mattine la inducevano a chiedersi quando e dove fosse iniziata la sua estraneità. Era tuttavia troppo intorpidita dalla notte e l’oscurità nella camera era talmente grigia e verde che ogni giorno, nella stessa maniera tale circostanza la portava altrove; ciò significa per ognuno abbandonare il mondo e se stessi, beneficio ugualmente desiderato da chi è felice o infelice. Qualcosa si agitava ancora in lei, ma i suoi pensieri si stavano spezzettando, come gli abbozzi dei verbali che lei ricopiava. Alla fine il suo capo aveva accertato che essi non contenevano l’essenziale di quello che egli era venuto a sapere durante l’interrogatorio, ossia il loro contenuto era molto arido e in certi punti simile a delle diffamazioni. Non valeva la pena dunque di far altro che stracciarli e gettarli nella stufa.
I pensieri di Zalka si fusero poi in nient’altro che una vaga sensazione. Questa sentimento era quel fuoco che aveva eliminato gli abbozzi degli interrogatori, che non avevano soddisfatto il suo principale. Zalka sospirò e la sua sensazione alla fine divenne solo colore, roseo e azzurrognolo, anelante a trasformarsi in grigio e questo ad estinguersi nel nulla.
Nel pomeriggio, allorché Zalka si svegliò, la luce che c’era nella stanza era uguale a quella della mattina, in cui si era coricata; ma lei era più consapevole di essere Zalka Hladnik, compilatrice di verbali, la quale seguiva con prontezza gli argomenti e sapeva con la massima precisione dove si era arrivati a delle semplificazioni e a delle diffamazioni.
Mentre Zalka scriveva sulla macchina Olivetti che non aveva i tasti delle consonanti biascicanti e sibilanti, si accorgeva ogni momento dov’era nascosto il senso di quelle domande e dove stava la superficialità di quelle risposte. Queste due cose si intrecciavano l’una all’altra e con la loro scaltrezza intralciavano in tal modo il discorso che in lei nasceva la voglia di collaborare nel processo. Trasalì ricordandosi questa intenzione, poiché lei era li soltanto per ascoltare quei due uomini. Sono qui solo per credere a uno, per fargli cenni di assenso, per ammirarlo; per l’altro invece sono qui per accusarlo, per afferrare il senso delle sue parole e per metterlo al muro come fa l’inquirente, affinché l’imputato confessi tutto.
Confessare che cosa? disse a Zalka una voce interiore. Era quella della mamma. Quando se ne rese conto, la contraddisse, avvicinandosi subito ancora di più all’accusatore, all’ufficiale dell’Ozna* che aveva una certa dolcezza negli occhi, ma era invece molto virile nel portamento, come lo sono gli uomini che attraggono a sé i propri compagni di ideologia con la loro dedizione alla rivoluzione e con la prontezza a sacrificare la propria vita per la libertà.
Riflettendo su tutto ciò, divenne nervosa, e con il pensiero non seguì più l’uomo che aveva vicino, nel quale aveva fiducia e al quale credeva. Scriveva a macchina così come l’uomo le dettava, non la turbavano neppure gli epiteti come ad esempio antistalinista, porco d’un clericale, gentaglia comunista, puttane partigiane...
Era a casa sua, dal nonno Gregor, dalla sorella Marija e si era fermata da Benjamin, era andata in cimitero a visitare le tombe ed era di nuovo giovane e nel bel mezzo della notte. Quando l’interrogato, madido di sudore, cercava di schivare le domande dell’inquisitore con le risposte: Non lo so. Non era lì. Che cosa volete da me? Zalka si trasformava in mattino e in giorno, quei locali divenivano piacevole stanze, piene di fiori e di gioia, di luci magiche e di vicinanze seducenti.
Quando l’inquisitore colpì la testa dell’accusato in modo tale che il sangue gli sgorgò dal naso, Zalka si ritrovò nel vano grigio di una delle cancellerie e non sapeva a che scopo lavorasse e perché fosse proprio là.
*N.d.t.: Reparto di Sicurezza Nazionale.
(Brano dal libro L’anima del nome, cap. XXIII, pagg. 400-401)
GREGOR HLADNIK
La vita che conduceva l’esercito era piena di incognite. In quel momento non aveva importanza sapere se l’imperatore avrebbe vinto o perso, né se l’impero si sarebbe sfasciato in una miriade di nazioni. Il momento richiedeva altre riflessioni, poiché in tempo di guerra anche l’allegria e la gioia, l’amore e il piacere, la vita e la morte assumono un altro valore che nei tempi di pace, irradiati dalla luminosa sicurezza del trono e ricolmi di un ‘infinità di beni prodotti da mani incallite e da cervelli sopraffini.
Nei Carpazi i russi non davano tregua all’esercito imperiale. Quando non avvisavano gli avversari della loro presenza e della loro forza con sparatorie e con saltuari assalti alle trincee fortificate, lo facevano con il canto lento e monotono di canzoni cosacche. Queste lunghe ballate venivano accompagnate da alcune corde di una balalaika stonata, il cui suono tremolante indicava che le dita del suonatore erano intirizzite. I canti strascicati di eventi segreti e intimi dicevano che i cosacchi avevano dalla parte opposta, laggiù lontano, nella loro patria sconfinata, madri e sorelle che avevano dovuto abbandonare in preda ai lupi e ai vagobondi, per ordine del loro barbuto zar. Quando i russi attaccavano gli austriaci questi ultimi si difendevano stringendosi gli uni agli altri e cercavano di tener lontano i selvaggi cosacchi semplicemente urlando e tirando fucilate. Assai spesso riuscivano nello scopo e ancor più spesso accadeva che i soldati dei due eserciti si avvicinassero al massimo fra di loro e gli austriaci, slacciandosi le cinture, agitassero i loro fazzoletti bianchi, come se fosse stato proclamato l’armistizio. I russi urlavano e in seguito spingevano per alcuni giorni innanzi a loro, nell’immensa pianura, i soldati catturati, affidandoli infine ad un altro comando o abbandonandone alcuni in qualche villaggio spopolato, dove le donne schiamazzavano come oche e pensavano che i soldati fossero venuti ad annunciare la fine della guerra. Ogni volta che i militari arrivavano, ed erano georgiani e usbechi inferociti, aspettavano dalle donne e dalle giovani, ed alla fine lo pretendevano con la forza, ciò che a loro maggiormente mancava.
Gli austriaci bonari guardavano con stupore tutto quel rincorrersi tra i fienili e i campi e alla fine anche loro ammiccavano, come per dire che la vita è dappertutto uguale in questo nostro triste mondo.
Sul campo di battaglia - campo per modo di dire, poiché veri campi non c’erano al fronte – i pochi soldati guidati dal sergente Gregor Hladnik, erano svogliati e di cattivo umore. Quando non ascoltavano in silenzio i canti provenienti dalla parte opposta, discutevano a lungo su ciò che sarebbe successo, quando l’ultimo degli Asburgo sarebbe salito al cielo. Se il capitano Božiček fosse venuto a conoscenza di tali riflessioni, avrebbe cercato di far cambiare idea al suo confuso e disorientato esercito, che già allora non era altro che un gregge. Forse avrebbe anche aggiunto qualcosa a ciò che i soldati più fanatici e stufi di tutto stavano discutendo sulla sorte della loro grande, troppo grande patria. Se dall’oriente non avesse cominciato a soffiare un vento gelido
e se poi i soldati non si fossero riscaldati con il rum attorno a dei fuocherelli, qui ci sarebbe stato un fetore insopportabile. Un posto maleodorante, ma accogliente. Già da alcune settimane in questa parte del fronte i russi non molestavano in altro modo che con i loro canti, per far capire che non erano lontani. E che avrebbero attaccato quando il loro zar lo avrebbe deciso. Forse anche i cosacchi arrostivano le patate sul fuoco per giornate intere, ingurgitando rum e sognando come avrebbero potuto infilzare nello spiedo l’imperatore, come lo avrebbero rigirato sulla brace e lo avrebbero irrorato di grasso per farlo dorare meglio. Un tale idillio di guerra una volta non c’era e forse non sarebbe durato per sempre.
Prima di partire per i Carpazi con i suoi soldati, Gregor Hladnik aveva fatto per alcuni mesi esercitazioni militari nelle vicinanze di una delle polverose caserme viennesi. Aveva scribacchiato qualche volta a Helena i suoi saluti, non aveva chiesto notizie dei figli, non sapendo se i suoi saluti sarebbero arrivati alla moglie – egli infatti non aveva mai ricevuto posta. La noia lo faceva dimagrire e gli faceva desiderare un cambiamento qualsiasi – perfino il fronte.
Mentre Gregor si preparava a partire per i Carpazi con i suoi uomini, gli eventi bellici non avevano ancora raggiunto il loro culmine. Gli storici dicono che i Carpazi furono luogo di grandi decisioni. Quanto merito e quanta responsabilità abbia avuto in tali decisioni il feldmaresciallo Boroevitsch, non è importante.
Gregor Hladnik non poteva sapere né tanto meno vedere cosa succedesse sugli altri fronti. Su quello dove egli doveva combattere, c’erano pochi morti. Il merito di ciò era forse anche del capitano Božiček; il quale diceva con gli occhi a tutti quelli che erano in grado di intenderlo, che proprio là, in quel luogo, si preannunciava la più conveniente ed onorevole via d’uscita. Gregor lo sapeva e tanto più lo desiderava che, nell’eventualità di un assalto da parte dei russi con forze preponderanti, tutti i suoi uomini, inclusi lui e il capitano Božiček, si liberassero prontamente dei loro cinturoni.
(Brano tratto dal libro L’anima del nome, cap. I, pagg. 18-19)
rekel boš: odkod pa se tale oglaša, ko pa ni bilo o njej ne duha ne sluha že celo večnost? In niti na ljubezniva pisma ne odgovarja več, še to lepo navado je s časom zgubila. In imaš prav. Pišem ti že... nekaj let; ker ne arhiviram pisem, na katera nisem še odgovorila, med goro pošte mi tudi tvoje pismo dela gnečo na že itak preobloženi delovni mizi in budi slabo vest.
Hvala za vse lepe besede, ki si mi jih napisal in nanje najbrž že davno pozabil. Nič ne de, jaz se jih spominjam in jih lahko celo preberem, ko se mi zahoče po kakšni pohvali. V zvezi z zbornikom. No, zdaj počasi pripravljam drugi del, čeprav ni od združenja, ki gre, se bojim, zaradi nenadne letargije in malenkostnih »članskih« nesporazumov v franže, nobenih spodbud in resnične volje, da bi kaj postorili. Pomaga mi pri prevajanju proze prijateljica še iz otroških let, ki sicer živi v Trevisu, a pride večkrat v Sežano k sestri.
Od mene se je nalezla navdušenja za prevajanje, tako da, ko pride k nam na obisk, po obveznem čajčku in klepetu, zajdeva neizbežno v prevajalske vode. Jaz ji seveda sekundiram in med pozornim branjem in razvozlavanjem dvoumnih mest, navadno tudi nadrukam prevode na računalnik, da gre vsa stvar hitreje in lagodneje od rok. No, prevedla je tvojo Romanco in tvoj Šverc komerc iz Sobote. Prav v Šverc komercu (19. junija 1999) je naletela na izraz nabodrenost, in ker ji tudi jaz nisem znala razložiti, kaj pravzaprav pomeni, sem ji rekla, da te bom vprašala. In evo me tu, da te vprašam.
je kaj v zvezi z bodrostjo?
Z nabuhlostjo?
Ne?
S čim?
Kaj pomeni potemtakem?
Pa še eno prošnjo imam. Ker je vsakemu avtorju dodeljeno določeno število strani, ali bi ti izbral in mi poslal fotokopijo kakšne svoje zelo kratke zgodbe, največ dve strani? Ali pa kakšen zaključen fragment daljše zgodbe, a nekaj z glavo in repom, ne zgolj odlomek, ker se odlomki ne obnesejo? Bila bi ti zelo hvaležna.
Upam, da mi boš odgovoril takoj, ali vsaj kmalu, da se ne boš šel oko za oko in zob za zob. Ne pozabi, da živim zadnja leta precej naporno življenje in da visi vse fizično in psihično in vsakršno delo le na mojih že zelo sključenih ramenih.
Gledala sem te že davno, v krogu kar neštetih znancev, sorodnikov etc, na TV. Zelo lepa oddaja, tako lepa, da sem privabila k televizorju vse domače in tudi nekaj sosedov in si z njimi ogledala z enakim zanimanjem ponovitev. Z neznanskim užitkom vseh.
Prav lep pozdrav in lepo se imej(te)
Sežana, 18. septembra 2001
Sežana, sobota 10. XI.2001
Dragi Jože,
zadnjič si moj klic »pošlji« bral narobe. Nič učiteljskega ni bilo v njem, nobene grožnje za kakšen opomin ali ukor, le voda mi je tekla v grlo, ker se je že najavila tvoja prevajalka iz Trevisa in sem ji hotela dati še manjkajoče strani v prevajanje. Brez njih bi se vse skupaj zavleklo in zakasnilo vsaj za en mesec, jaz pa sem najbolj mirna, ko imam vse lepo korigirano in lektorirano v računalniku, kar je še v božjih rokah, me prej vznemirja kot pomirja. No, ko se človeku mudi, nima časa, kot bi rekla neka moja rojanska prijateljica, za... mici-moci (beri miči-moči), ki v tržaščini sicer pomeni, človeka, ki nosi očala (mici-moci ali cici-boci, quatro oci), a v njenem osebnem žargonu pomeni, da se ne zgublja z odvečnimi besednimi okraski, marveč gre naravnost ali celo po krajšnjici k problemu, ki ga žuli.
Hvala za knjigi, obe sva se ju iz srca razveselili. Jaz vzela tisto s posvetilom Jolki, njej pa dala tisto s posvetilom brez imena, češ ne ve še za tvoje ime. Bila je presrečna, ker te zelo visoko ceni in ji je všeč, kako pišeš, čeprav ji to dejstvo ne olajša delo, ker se greš občutke in nianse in odtenke, kar ni najlažje pri poustvaritvi atmosfere. Že naslednji dan, - prej je prebrala vse doma - mi je predlagala bralno popoldne, v katerem sva prebrali vse tiste dele, ki si jih označil in marsikateri pasus tudi podrobno razčlenjevali in prediskutirali.
A to pismo ni samo zahvalno. Jaz bi bila sposobna se ti zahvaliti prihodnje leto, ko pa me čas (njegovo pomanjkanje) tako neusmiljeno pesti! Upajoč, da veš, da sodim med hvaležna bitja in... pasje zveste osebe, skratka, da ni molk znak neotesanosti. No, moram te vprašati nekaj malenkosti. V zvezi s kratko notico o avtorju, ki je v zborniku na čelu izvirnih in prevedenih strani:
Podatke sem zajemala iz Bajtovega Slovenskega kdo je kdo. Je Drago vse napisal? Če ni, dodaj. Po Divjem jezeru ali... si še kaj knjižno objavil? Naštej. O Zaznavah z griča sem brala danes v Soboti (v pismu si mi že ti omenil sicer), a že tu je
nastalo drobceno vprašanje: grič z malo ali veliko začetnico?
Pri Bajtu piše, da si se rodil v Spodnji Idriji. Kaj ni zadosti v Idriji? Če bi se rodil v Ljubljani, bi potemtakem moralo pisati, da si zagledal luč sveta v Šiški ali v Trnovem?
Knjiga Rimska cesta. Je mišljena galaksija (Via Lattea) ali gre prav za cesto (Via Roma)? Ti se kar smej, a prav pri teh drobnarijah ga prevajalec najlažje lomi. Zdaj kar osem ali devet prevajalcev prevajamo dvanajst Pavčkovih pesmi. On omenja jagode (pri molku), po italijansko se jim reče grani (tudi v francoščini in španščini graines-granos), no, tako v francoščini kot v španščini sta prevajalca mislila tiste rdeče slastne sadeže, ki se jih redko kdo brani. Idem pri šmarnici. Oba sta mislila, da gre za cvetko (mughetto), ne pa za dolenjsko in štajersko trto. Pred leti je dva topla bratca
zamejski prevajalec prevedel Rožancu v due caldi fratellini, ker ni vedel, da tako pravimo pri nas pederjem, moral bi pa napisati due froci. O takih kozlih bi ti lahko še in še pripovedovala. Bereš malo manj zbrano in naslaja prebereš in prevedeš naslanja in dokraja spremeniš pomen zaključnega verza. To se je zgodilo prevajalki v francoščino, na srečo šele na rokopisu in ne v knjigi. Zoltanu Janu se je marsikateri contatto (stik, dotik itd) v zadnjih dveh knjigah preobrazil v contratto (pogodba). Zgodi se, živim in nihče ni pred tem imun, niti podpisana.
Knjiga Preklic izrednega stanja. To izredno stanje je v zvezi z vojno?
In to je vse.
Prav prisrčen pozdrav tebi in vsem pri hiši
Sežana, 28. maja 2002-05-28
Založniku
ČZP Primorske novice d.o.o.
Ulica OF 12
6000 KOPER
Spoštovani izdajatelj in založnik ,
vljudno vas prosim v svojem imenu in v imenu Združenja književnikov Primorske, da nam
dovolite objaviti v drugem delu društvenega zbornika Tja in nazaj-Andata e ritorno, ki ga že dlje časa
načrtujemo in tudi že pripravljamo, do tiska pa še ni prišlo zaradi – samoposebi umevno, kar večnega
refraina, ki se imenuje pomanjkanje sredstev - dva zapisa (ali največ tri) Jožeta Felca iz Zaznav z griča
(knjiga je izšla leta 2001 v Kopru), in sicer v izvirniku in italijanskem prevodu.
Na predstavitvi knjige v Sežani mi je bilo izrecno rečeno, da nam boste izdali pisno dovoljenje, a ker ga doslej nisem še prejela, vas prosim, da mi ga po možnosti čimprej dostavite, da pač zvem pri čem smo. Kolikor bi se namreč medtem iz neznanih razlogov premislili, bi morala že prevedena premišljevanja umakniti (tretje pa sploh odmisliti) in ju nadomestiti z objavami, ki niso vezane na kakršnokoli založniško dovoljenje.
Z upanjem na vaš pisni pristanek vas prav lepo pozdravljam
jolka milič
glavna prevajalka in urednica zbornika