Sta ritornando per la solita strada che conosce ormai a occhi chiusi. Sente il profumo dell’erba falciata. Se avesse inforcato la bicicletta il vento le accarezzerebbe le gambe, il viso e le braccia. Il viaggio in macchina invece è tutt’altra cosa. Chiusa nella conchiglia metallica, guarda il grande quadro della natura ed è completamente al sicuro da odori e contatti. Se chiudesse gli occhi, vedrebbe i cespugli e gli alberi che non ci sono più. È stanca poiché non può più riposare il suo sguardo sulle siepi. Tutto è più pianeggiante e preordinato.
Se non vuole finire fuori strada, non deve fantasticare troppo. Non si può infatti guidare ad occhi chiusi. Avendo fatto tante volte questo percorso, non deve badare continuamente alla direzione. La vede bene, guardando dentro di sé.
Quale paesaggio si schiude ora davanti a lei?
Leggermente ondulato, senza grandi contrasti e senza margini taglienti. La vallata si innalza lievemente e dopo un po’ degrada. Ad oriente e a settentrione è protetta da montagne, dalle quali d’inverno si abbattono a valle bufere impetuose con mulinelli d’aria. Preferisce volgersi verso meridione o verso occidente, dove il panorama è più ameno. Le alture ad ovest e a sud non hanno un aspetto ben definito. Sono troppo basse per poter dar loro il nome di montagne e sono troppo appuntite e tese verso l’alto per chiamarle colline.
«Mi pare che l’immaginazione popolare dia un nome ad una montagna, solo dopo averla osservata bene per secoli e dopo aver scoperto appieno la sua personalità e la sua indole.
Perciò dobbiamo usare con rispetto e con amore i nomi dati alle montagne dalla gente del posto.»
Così si espresse in proposito il nipote di Jovan Vesel Koseski*, gran signore e noto alpinista di Trieste. E cosa ne dice la fantasia popolare? Gli abitanti non hanno ancora trovato un nome adatto a quelle alture o esso si è già perso. Le chiamano semplicemente Vrhovi (cime, culmini). Fra questi sono interessanti soprattutto tre, che hanno alla loro base e lungo i versanti ognuno un proprio corpo, verso la cima invece si congiungono, fondendosi dolcemente l’uno nell’altro. Il villaggio è situato sulla loro sommità, che non è né un pianoro né una cresta. Il sito è ampio quanto basta perché le case possano starvi su un terreno piano. Da tutte le parti scendono a valle pendii che si soffermano appena in terrazzi e pianori.
Ha scelto forse una professione sbagliata? Avrebbe dovuto fare la contadina, coltivare la terra e calcolare cosa fosse per lei più o meno redittizio? Avrebbe dovuto seminare, raccogliere i prodotti e venderli? Quando dice che le sarebbe difficile vivere senza la terra, pensa di solito all’intera vallata ed anche al cielo sovrastante. Di tutto questo ha bisogno per ricaricarsi di energia.
Vicino al Beli Križ cominci a salire verso il villaggio – nascosto dietro al monte Strmec - , con i suoi vigneti e i cipressi dietro al muro del cimitero. Sul Vrh jelš (cima degli ontani) ti fermi un po’, mentre all’improvviso vedi comparire davanti a te tutto il paese. Sull’orlo della strada giace una grande pietra tonda, resa liscia dallo strofinío continuo dei culetti infantili e dai sederi delle donne. È stata levigata e trasformata in un luogo di riposo. Ti fermi accanto e dopo aver riempito i polmoni di aria pura, ti scrolli di dosso gli anni, distendendosi beatamente tra erba e cielo.
È una vera festa l’incontro con zio Lojze. Una volta in paese lei chiamava «zio» qualsiasi uomo, ora invece evita di farlo, poiché in realtà non si tratta né di zii né di estranei. Lui solo è rimasto per lei «zio», perché le ha insegnato a rastrellare in ambedue i versi. Non tutti i ragazzi del villaggio sapevano farlo. Lo aveva imparato invece lei che, dopo tutto, veniva dalla città.
«Guarda! Prima di tutto devi rastrellare davanti a te, per camminare sul pulito. Muoviti sempre in avanti, dietro al rastrello, mai indietro. Prendi il manico del rastrello in modo alterno: Quando raccogli l’erba dalla parte sinistra, la mano sinistra deve stare sopra, quando invece ti volti a destra, devi fare il contrario. Forza, muovi la manina! Vedi che va!»
Al ricordo del lavoro fatto insieme si intenerisce e la sua parlata scivola nel dialetto. No, non potrà restare, poiché ha fretta. E già si salutano, perché anche lui ha premura di andare da qualche parte, chissà dove.
È venuta per riordinare la casa. Dopo la morte di sua zia, la cugina le aveva dato le chiavi perché potesse venire quando ne avrebbe voglia. Prima dell’ultimo trasloco ha portato qui i suoi vecchi mobili che aveva sostituito con i nuovi, gli abiti usati e tutto ciò che non le era più necessario, ma che non aveva avuto il coraggio di gettare via.
Decide piuttosto raramente di venire qui. No, in questa casa non potrebbe davvero abitare. Se dovesse rimanervi per una notte da sola, morirebbe di paura. Ma guardiamo in faccia la realtà! È normale che una donna adulta abbia paura del buio e dei morti? Se ne dovesse vegliare uno da sola, le si annebbierebbe il cervello o soccomberebbe per lo spavento. Certo, sa che nessuno è tornato indietro e non ha mai incontrato uno spirito. Ogni paura è un’ubbia, fatta di niente. Perché ora teme di entrare?
Mentre esamina mentalmente la casa, rivede sul suo ballatoio una bara. I becchini la stanno posando sulle loro spalle, ma un cane li ferma, ringhiando immobile sulla scala. Il quadro è talmente reale che scomparirebbe solo se aprisse la porta e si convincesse che non è vero. Prima ancora di entrare, sente il suo cuore battere all’impazzata. Non c’è niente da fare, dovrà affrontare la sua fobia. Mentre gira la chiave, si accorge con sollievo che la porta d’entrata è già aperta. Si meraviglia che ci sia qualcuno in casa.
Non ha tempo per riflettere. Qualcuno le salta addosso attaccandosi al suo dorso. Sentendolo respirare affannosamente, capisce subito che non è certo un fantasma. Si tratta in effetti di un uomo. Sa bene come fare con lui. Si slancia in avanti con tutta la sua forza, per liberare le braccia, poi però si gira velocemente verso di lui. Deve afferrarlo per i capelli, mentre è ancora immobile per la sorpresa. Incomincia a tirarlo per i capelli ora a destra ora a sinistra, come se la sua testa fosse una palla. Toccando i capelli sente che si sono fatti piuttosto radi ed ha pietà di lui. L’uomo pensa che stia cedendo e la cinge con le sue braccia, questa volta però dalla parte anteriore. Benché sia da tempo un uomo maturo, durante la lotta riacquista il suo corpo giovanile, come se avesse rigide tutte le varie parti del corpo – i muscoli lunghi delle cosce, e quegli estesi del torace e del ventre. Ai vecchi tempi la lotta sarebbe continuata, ora invece entrambi abbandonano presto la presa.
Stanno seduti in silenzio sui gradini dell’entrata. Se lei si curvasse un po’ all’indietro, toccherebbe con la schiena i piedi di lui. Ma entrambi sanno che non lo farà. La lotta è stata la loro unica tenerezza. Continuano a tacere e guardano verso la porticina del forno a legna, come aspettando che si cuocia il pane e che la zia dia ad ognuno la propria pagnottella.
Su quegli stessi gradini si era addormentato Rajko, il primo bambino dato in affidamento alla zia. Doveva avere quattro o cinque anni, quando giunse a piedi nel villaggio con sua nonna. Comparvero sulla soglia una domenica pomeriggio, nell’autunno inoltrato. La nonna aveva chiesto se fosse arrivata nel posto giusto. Era lì il numero 15? Aveva temuto che Rajko non ce l’avrebbe fatta a causa del lungo percorso, invece era stato tanto bravo che aveva sempre camminato con le proprie gambe.
La zia arrivò in gran fretta dalla cucina:
«È certamente stanco ed affamato. Ma cosa mai sto dicendo? Tutti e due siete certo morti di fame. Quante ore avete camminato?»
La vecchietta non sapeva che ora fosse, ma quando glielo dissero le parve impossibile che fosse già così tardi. Tutti si meravigliarono che il bambino fosse stato così bravo. La zia portò ancora due bicchieri, poi ritornò in cucina e non badò più a loro due.
L’entrata era piena di gente che parlava di lavoro. Tre braccianti seduti sulla panca dietro alla madia, parlavano ad alta voce, affinché la zia potesse sentirli. Zoppicando ed appoggiandosi al bastone, lo zio arrivò dalla cucina e si sedette accanto agli uomini sull’orlo della panca. Teneva il bastone tra le gambe e vi si appoggiava, come se avesse dovuto alzarsi da un momento all’altro. Parlava poco, però si capiva subito che il padrone era lui. I braccianti gli lanciavano ogni tanto un’occhiata e se non diceva nulla, significava che tutto andava bene. La nonna si sedette su una sedia. Erano seduti pure la figlia dei padroni e il loro genero. Rajko si rannicchiò sui gradini, vicino ai loro figli. Benché l’entrata fosse colma di gente, egli non aveva paura e si sentiva come uno di casa. I tre maschietti - i due nipotini e un buffo bambino altrui con una grande bocca – facevano scorrazzare nell’ entrata un cane. Quando l’animale si stancò, si mise a giacere su uno scalino. Rajko vi si sedette accanto e abbracciando il cane si addormentò.
«Portatelo di sopra! Per una volta può dormire vestito. Lo cambieremo d’abito domani,» disse la zia.
Avendo accennato all’abito, tutti si resero conto che il bambino non aveva portato nulla con sé. La figlia si alzò e disse alla nonna di Rajko di non preoccuparsi per i vestiti. Sopra, nelle camere, era rimasto certamente qualcosa di Benjamin nei cassetti, domani poi avrebbe spedito lei qualcosa da Trieste. Eventualmente avrebbero potuto anche cucire qualcosa per lui.
Una bambina, seduta zitta zitta in cima alle scale già quasi al buio, udendo parlare di cucito, tese l’orecchio con la speranza che avrebbero menzionato sua mamma, cosa che non avvenne. La figlia triestina, bella come la Fata dai capelli turchini, si chinò sorridente e profumata sul bambino addormentato, prendendolo in braccio.
«Nonna, lo lasci pure, lo porterò su io. Non sia triste! Guardi, tutte e due lasceremo qui i nostri bambini. Non si annoieranno.» Poi si volse verso mia zia: «Mamma, dove devo metterlo a dormire?»
«Che dorma con i tuoi figli nel mio letto.»
Alla bambina lassù in alto della scala le palpebre si facevano pesanti e le si chiudevano gli occhi, non voleva tuttavia addormentarsi ancora. Non avrebbe voluto rimanere sola. Quella sera si ritrovò a letto senza sapere come.
E in seguito non riuscì a ricordarsi come fosse arrivata dalla zia. Arrivò all’improvviso il primo giorno di scuola. I ragazzi di tutte le otto classi e le due compagne-maestre vangavano il giardino, estrirpavano le erbacce attorno ai fiori e rastrellavano il cortile, mentre la bambina se ne stava immobile e impalata davanti all’altarino in pietra della Via Crucis. La maestra le venne vicino facendole qualche domanda, alla quale lei non rispose, tenendo lo sguardo fisso a terra per non piangere. La compagna-maestra ebbe subito fiducia in lei e la mandò nella sua camera al primo piano a prendere una piccola brocca.
Quanti bambini capitarono allo stesso modo in quella casa?
Peter faceva già il servo dalla zia, quando lei arrivò.
Ora lei gli chiede se si ricorda di Rajko. Lo ha sentito
nominare? Lo conosceva? Peter le racconta che non
hanno lavorato nel medesimo periodo; Rajko era
arrivato dopo che lui era partito per andare a studiare.
Detto ciò, come se la conversazione gli fosse di
troppo, Peter si alza, prende i suoi arnesi e comincia a
lavorare. Lei intanto sale verso le stanze del piano
superiore. Non ha più paura, poiché la presenza di un
vivo la difende dai morti. Passa tuttavia in fretta davanti al sinistro ballatoio, si ferma invece davanti alla stanza della zia come davanti alla porta di una fortezza. Una
volta poteva dormire da lei solo in caso di malattia.
Subito dopo il ricovero in ospedale della mamma, la bambina smise di mangiare. A lungo nessuno si accorse che dava tutta la sua carne al cane. Inoltre nascondeva il pane nelle tasche e lo gettava ai maiali.
Dopo un po’ di tempo chiamarono in paese il medico, il quale disse alla zia: «Il fatto deve essere dovuto a qualcosa d’altro. Deve cucinare per la bambina ciò che desidera, qualsiasi cosa,» sottolineò.
La zia fece andare allora la bambina nella propria
camera. La bimba se ne stava lì immusonita, al fresco e
all’ombra, con gli occhi socchiusi, pensando alla
mamma. Aspettava che qualcuno venisse a trovarla o
che perlomeno facessero venire da lei il cane. Veniva
invece soltanto la zia che le chiedeva di continuo cosa
avrebbe voluto mangiare. La bambina non aveva mai
visto in quella casa le barbabietole rosse e chiese perciò
alla zia di prepararle.
Trovarono le barbabietole dal loro vicino. La zia le cucinòo e gliele portò.
Torcendo la bocca davanti al piatto, la bimba disse: «Sono troppo acide, sarebbero più buone con la carne.»
La zia si rallegrò, pernsando che finalmente le fosse ritornato l’appetito e soggiunse: «Ti porterò subito la carne. Devo solo toglierla dallo strutto e riscaldarla.»
«Non posso mangiare la carne di maiale, replicò la bimba, «Vorrei una bistecca di manzo.»
La macelleria più vicina era a sei chilometri, in città. Poiché l’unico autobus era già partito, la zia vi mandò Peter che partì a tutta velocità a bicicletta.
Quando ritornò, la bimba confessò candidamente
che la carne le faceva schifo.
Poco mancò allora che la zia non scoppiasse dalla
rabbia.
Gliele diede di santa ragione, soprattutto sulla testa e sulle braccia nude. Alla fine la donna infuriata e la bambina triste si guardarono ben bene negli occhi, come non l’avevano fatto mai prima di allora. Alla piccola si sciolse il nodo in gola, mangiò con avidità un grosso gnocco e dopo anche il resto del pranzo.
Durante la visita successiva, il medico tutto soddisfatto e con un cenno di approvazione disse: «Vede che avevo ragione? Quando un bambino perde l’appetito, bisogna dargli qualsiasi cibo di cui ha voglia. Gli fa bene solo ciò che gli piace e ha bisogno soltanto di quello.»
La zia raccontò allora al medico che alla bimba erano giovati i suoi scapaccioni. «Ha ripreso a mangiare,« disse, »solo dopo che io l’ho ben picchiata.»
«Succede talvolta che può giovare quello che non nuoce. Non sarà certo più necessario picchiarla, perché è una bambina giudiziosa,» concluse il medico.
Davanti alla porta della stanza, lei ormai da tempo donna saggia e matura, ha la sensazione che qualcosa le manchi. Cosa dovrebbe fare? Non lo sa proprio. Ritorna all’inizio del corridoio, soffermandosi tranquilla, finché il suo sguardo si posa sull’armadio di suo zio, nel quale egli teneva di solito i suoi attrezzi da apicultore e i favi. Quando li vuotava, riempiva di miele tutti i vasi e i grandi recipienti cromati. Benché l’armadio sia vuoto da tempo, essa vi infila la testa e accosta il più possibile le ante per non disperdere il prezioso profumo. Per lei ora tutto il mondo ha il profumo del miele.
Ogni pomeriggio, prima che la bambina portasse le mucche al pascolo, la zia le dava una fetta di pane, tagliando la pagnotta nel punto in cui era più larga, spalmandovi sopra burro e miele. Le mucche si soffermavano ai lati della strada brucando l’erba, affamate quanto lo era lei. La bimba mangiava lentamente prendendo a calci i sassolini. Arrivata al Vrh jelš, finì l’ultimo boccone e guardò indietro. Venendo da casa, i bambini non avevano l’abitudine di sedersi sulla solita pietra levigata per riposare, tuttavia ognuno rallentava il passo poiché dopo di quella, scendendo il pendìo, il villaggio scompariva ed ognuno rimaneva solo con il proprio bestiame e i propri pensieri. Sulla via del ritorno invece ogni pastorello si sedeva sulla pietra per riposarsi, tutto felice essendo la strada ormai piana e le mucche non potendo più disperdersi – felici anche loro di ritornare alla stalla.
La casa di sua zia era stata una vera casa per lei e per tutti i bambini? Ce n’erano diciassette, se conta anche se stessa e i due nipotini di Trieste. Rivede le scene oscure della sua infanzia come su uno schermo. Sono vive e reali, ma non le fanno più male. Teme che con il dolore se ne sia andata via anche la sua infanzia.
Finché tiene la testa infilata nell’armadio e annusa l’odore del miele scomparso già da lungo tempo, e finché lotta con Peter, il suo io infantile vive ancora sparso nelle cellule del suo corpo – sostanza preziosa che le dilata le vene ogni primavera, quando le giornate si allungano, tanto che le braccia e le gambe le fanno male, come se crescesse ancora. Poi il corpo perde peso, poiché il suo sangue si rinnova - così almeno diceva suo padre.
Abitava così vicino al mare da sentirne in primavera il tiepido e umido soffio. Alti nel cielo passano stormi di grandi uccelli e si avvicinano con un volo lento alla foce del fiume. Non capisce perché ritornino a sud-ovest. Sono ancora sempre attratti dal caldo mare? Poi però, come se all’improvviso cambiassero idea, si innalzano volgendosi verso nord e volando sempre più veloci. Anche lei ritorna all’infanzia lieve come un uccello. Tutti i bambini della zia sono parte del suo stormo. Come morbide ali sono le manine dei bambini altrui. Le paure
infantili si sono mutate in un canto di uccelli.
Dopo esser giunta dalla zia, la bambina si accorse subito che da lei non si poteva parlare ad alta voce. Avevano sigillato la radio e nessuno piu poteva ridere e cantare. Tutto cio avrebbe poturo ricordare alla zia suo figlio, che era stato un tipo allegro e un bravo corista. In chiesa sembrava alla bambina di sentirlo cantare ancora.
«Piangevano tutti quando cantava l’Ave Maria», le aveva raccontato la mamma.«Tutto il coro lo seguiva – aveva infatti una bellissima voce da baritono, calda e forte. Purtroppo trascurò il suo talento, dato che per lui la campagna era più importante di tutto il resto. Avrebbero dovuto lasciarlo in pace, almeno dopo la guerra, quando cantava nel Coro degli invalidi. Successero nel frattempo altri fatti, molto più gravi.»
La mamma non le disse quali e la bimba temeva che si disperdessero anche tutte le altre voci – prima fra tutte quella della mamma, poiché stava molto male. Perciò la bambina cantava a gran voce dove le era possibile: al pascolo, a scuola e nel coro. Alzava la voce soprattutto in chiesa. Fra le nuvole e i santi dipinti sul soffitto udiva appena appena la sua voce che si univa alle voci invisibili del coro di suo cugino.
Allorché ritornarono a casa, la zia le chiese: «Cosa mai avevi in chiesa? Perché strillavi tanto durante la messa?»
Nella casa della zia i quadri le evocavano la chiesa: la Madonna Addolorata e Cristo con la corona di spine nella camera da letto della zia, il Sacro Cuore di Gesù nella camera della mamma ancora nubile, il cugino morto nella cornice d’argento sul comodino dello zio e sotto, in cucina, il Maresciallo Tito.
I quadri tristi si riferiscono solo ad un breve e immobile arco di tempo. Nella fattoria invece nessuno riposava, poiché il lavoro non si fermava mai. Tutti si sentivano colpevoli, pur lavorando senza sosta , mentre la zia sbraitava e impartiva ordini come se stesse infliggendo una condanna. Tutto ciò che la terra produceva, serviva alla vita. La casa se ne stava sempre là, salda e immobile, essendo stata costruita fra cielo e terra; i dolori e i contrasti non potevano distruggere l’ordine che vi regnava. A mezzogiorno, al suono delle campane, la padrona portava in tavola il pranzo; gli animali invece accorrevano alle mangiatoie e agli abbeveratori. Il desinare era un rito, tutti erano partecipi in perfetta calma della sua abbondanza. Quando la zia impastava il pane, i bambini si sedevasno sugli scalini, aspettando ognuno la propria pagnottella.
In casa regnava l’ordine, i ragazzini però non erano lasciati mai in pace. Se non altro, dovevano almeno andare a prendere qualcosa. Appena arrivava in quella casa, il bambino doveva imparare subito dove venivano riposte la crusca, la farina di frumento o quella di granoturco. Faceva un salto in stalla per riportare un pentolino dimenticato o dava un po’ di fieno di primo e di secondo taglio al bestiame oppure versava nel truogolo la brodaglia destinata ai porci. Sapeva inoltre scremare il latte e prendere i crauti da una botte profonda. Correva nell’orto a prendere la verdura per i familiari e sul campo le barbabietole per i suini. I bambini erano sempre presenti quando il carro da fieno o da letame partiva per i campi. Ritornava talmente pieno che i buoi stentavano a trascinarlo e dovevano ritornare a piedi anche i bambini più piccoli. La zia non era mai soddisfatta. «Perché non avete caricato anche i tralci e le frasche? Non avete certo raccolto tutte le prugne. Non credo proprio che ve ne fossero così poche!»
La colpa non era mai dei ragazzini. Per la bambina era sempre un fatto sorprendente che i braccianti non temessero la zia. Già strada facendo preannunciavano quello che lei avrebbe detto e quant’altro ancora avrebbe desiderato. Se lo indovinavano, si facevano allegramente l’occhiolino.
La bambina aveva troppa paura della zia per trovarla ridicola. Ma ogni tanto riusciva a dimenticarla. Se il carro non era sovraccarico, i bambini potevano salirvi e lei si stendeva sul fieno o su un sacco di farina. La sovrastavano così le chiome degli alberi e il cielo. Il gradevole crepuscolo velava ogni cosa e il villaggio dietro il monte Strmec era ormai solo un’ombra.
Alla domenica, quando non si lavorava, ai giovanottini in cerca di avventure piaceva andare a zonzo per le strade del paese. Le coppie serie invece se ne andavano nel pomeriggio verso la chiesetta della Beata Vergine. Soltanto li crescevano le genziane azzurre e l’amore serio era azzurro come i prati in fiore e come il manto della Madonna.
L’amore non di meno si tingeva talvolta di rosso a causa della gelosia - era così rosso come il sangue quella volta che sul viottolo davanti alla mamma comparve il sue ex innamorato con il fucile spianato contro di lei.
«Credi forse che io abbia paura di te?», gli disse la mamma che allora non era ancora la mia mamma. «Puoi fare quello che vuoi, ma io non saro mai tua.» Se quella volta l’avesse uccisa... come sarebbe questo mondo se io non ci fossi? rifletteva la bambina guardando i cipressi al di la del monte Strmec.
Perché aveva tanta paura della zia? Parlando di Mirja, la zia diceva ridendo che non aveva nessuna influenza su di lei. Se le faceva qualche rimprovero, Mirja alzava i tacchi e se ne andava per i fatti suoi. Anche Rajko e il nipotino Benjamin non avevano nulla da temere da parte della zia. Con loro forse aveva ormai perso ogni speranza o forse non sapeva più quale lavoro assegnargli. I ragazzi però non riescono a stare senza un’occupazione, perciò se la trovano da soli prima o poi. Per la noia Rajko e Benjamin davano fuoco all’erba e ai cespugli e gettavano i sassi dalla pietraia nuovamente sul campo. La zia affidava l’incarico di giudicare e punire tali gravi azioni allo zio. Appoggiandosi al bastone e zoppicando, egli arrivava al cospetto dei discoli. Poi alzava alto il bastone e puntando minacciosamente l’indice verso di loro diceva:
«Siete brutti, brutti e cattivi!» Provavano tanta vergogna che nessuno osava mai replicare.
La casa era piena di gente. Le cantine erano ricolme, ma alla bambina sembrava che le mancasse tutto. Le dicevano che la mamma sarebbe tornata presto. Quando? - Alla fine del mese - Durante le vacanze invernali... Per Pasqua...
In estate. Arrivò in visita per alcuni giorni. Dissero alla bambina che la mamma l’attendeva in casa. Si precipitò allora verso di lei, gettandole le braccia al collo. La mamma la strinse a sé e la guardò con amore. Poi però gettò un grido e svenne. Nel visetto sfigurato e gonfio per le punture delle vespe, non riconobbe i lineamenti di sua figlia.
Il giorno seguente la ragazzina si recò dal fabbro per sapere quando avrebbe ferrato il bue; lì mise sbadatamente un piede scalzo sul ferro rovente. Tornata a casa, la zia la sgridò: «Cosa mai stavi guardando?» La mamma invece scoppiò a piangere, mentre la bambina mordendosi le labbra se ne stava zitta zitta. Aveva di nuovo rovinato tutto.
Dopo un po’ sentì che lo zio diceva alla mamma: «Con questa bambina ci saranno ancora molti guai.» Queste parole la colpirono più di tutti gli strilli della zia, tutti sapevano infatti che lo zio era un uomo giusto.
Ora non le rimaneva altro che la scuola. La chiesa era la casa della gioia, la scuola la casa della pace. La maestra faceva lezione a due classi contemporaneamente. Si avvicinava ai ragazzi in punta di piedi, senza far scricchiolare minimamente il pavimento di legno. Si chinava, guardando il quaderno al di sopra delle spalle dello scolaretto.
Dalla finestra la primavera faceva capolino in classe. La
compagna-maestra la raffigurò così bene che la
bambina ne scrisse subito alla mamma in una lettera.
Cara mamma
stiamo raccogliendo le erbe medicinali: le primule. La compagna-maestra ha fatto alla lavagna un disegno della primavera. Ogni sabato leggiamo Pinocchio. Ho portato il cane dal fotografo. Ti manderò la foto. Non vedo l’ora che tu venga a casa.
La mamma ritornò alla fine della scuola. Non riusciva assolutamente a dimenticare l’ammonimento dello zio. A quali problemi accennava suo cognato? Egli conosceva a fondo le persone. Non era certo come sua sorella. In seguito tanto la mamma che la figlia aspettarono cosa mai sarebbe successo. Forse più in là nel tempo. Durante l’estate tutto filò liscio.
Mamma e figlia si recarono quindi a Trieste, dove abitavano in Strada del Friuli, su in alto, vicino al mare. Tre ragazzetti andavano ogni giorno al bagno pubblico Ai Topolini. Il piccolo bamboccio bamboccione Benjamin era un vero guastafeste: troppo piccolo per imparare a nuotare, durante tutto il santo giorno bisognava sollecitarlo: muoviti, va’ a fare il bagno, esci dall’acqua, mangia, hai finito finalmente di mangiare? Sarebbe dovuto rimanere a casa, attaccato alla gonna della mamma. Ma lei non voleva sentirne parlare. Voleva sbarazzarsene e diceva che dovevano portarselo dietro e insegnargli a nuotare. E il bamboccio si appiccicò di nuovo a loro, mentre le due mamme a casa cucinavano e chiacchieravano.
Quando madre e figlia ritornarano a casa dal padre, la bambina cominciò a preoccuparsi a causa di un nuovo probabile ricovero in ospedale della mamma. E se morisse? Disse alla mamma che se dovesse mancarle, avrebbe preferito vivere dalla cugina piuttosto che dalla zia. A Trieste infatti sarebbe stato più piacevole. Queste parole colpirono fortemente la mamma:
«Cosa mai stai dicendo? Ora sto bene.»
«Hai detto a papà che si risposi, se dovesse rimanere vedovo.»
«Abbiamo parlato in generale: è meglio che i vedovi si risposino piuttosto che rimangano soli. Perché dovrei morire? Ora sto bene.»
La bambina si fidò di lasciarla sola. Andò a dare un’occhiata alla casa. Ritornò quasi subito.
«Mamma, non c’è nessuno.»
«Quasi tutti hanno già traslocato.»
«Perché hanno traslocato?»
«Ci hanno venduti. Ci hanno venduti con la casa.»
La bambina sapeva che non si vendono le persone e pensò che si trattasse di nuovo di affermazioni in generale come prima, a proposito della vedovanza del padre. Perciò non fece altre domande e se ne andò in cortile. Vi trovò dei bambini piccoli e sconosciuti. Con loro non avrebbe giocato, ciononostante li invitò ad andare con lei in cantina.
Non vogliono andarci? Hanno certamente paura del buio. E sennò, di che cosa?
La sorprese il fatto che la porta del locale più grande fosse spalancata. Da nessuna parte ghiaccio e segatura. Prima di allora i ragazzi riuscivano a malapena a rubare qualche pezzo di ghiaccio, lo dividevano fra loro e dietro alla casa lo succhiavano di nascosto, adesso invece la cantina non era nemmeno chiusa a chiave. Dopo aver esaminato tutto attentamente, vide da una parte solo legna, invece là dove dovevano esserci le patate, si imbattè in una mucca.
Corse dalla mamma. «Mamma, cosa ci fa la mucca nella nostra cantina?»
«Te l’ho già detto che la casa è stata venduta. I nuovi padroni hanno portato con sé la mucca.»
Fuori, davanti alla porta, si fece sentire Vlado. La bambina si affrettò per arrivare prima di lui: «Vieni, andiamo a vedere la soffitta!»
«Non si può. È chiusa a chiave.»
Non gli credette. Andò da sola. In cima, in fondo al corridoio, si aprì una porta e una donna di bassa statura le chiese dove stesse andando.
«Cosa stai cercando?»
«Non cerco niente.»
«Senti, allora devi andare giù!»
Obbedì ed andò dalla mamma. «Chi è quella piccola donna al piano di sopra? Perché non vuole che io vada in soffitta?»
«Te l’ho già detto che ci hanno venduti.»
«Perché hanno venduto la nostra casa?»
«Non era nostra, era dello stato.»
«Adesso sai perché hai lottato. Adesso ce l’hai il tuo stato!» disse il padre che era appena ritornato a casa dal lavoro.
«Come se tu non avessi lottato.»
«Certo, ma non ero esaltato come lo eri tu.» E volgendosi verso la bambina, le disse: «Pensa un po’, aveva preteso da me che le cantassi ‘Dietro il villaggio pascolava il gregge...’. Ero tanto innamorato che feci come lei desiderava, pur essendo del tutto stonato.»
«Eh, sì, eravamo veramente pazzi,» disse la mamma con occhi ardenti. «In fondo al paese c’erano i tedeschi, mentre noi seduti attorno al focolare cantavamo a squarciagola canti partigiani.»
«E cosa c’è di così strano in tutto ciò?» chiese meravigliata la bambina. «In fondo i tedeschi non capiscono lo sloveno.»
«Tu non capisci niente,» replicò offesa la mamma.
«Già in precedenza avevi avuto tutte le malattie possibili,» soggiunse il padre. «Non ti mancava altro che una pallottola. E tanto hai fatto che alla fine l’hai presa.»
«Come puoi essere così villano? Sono, sì, malaticcia ma non puoi dire che mi mantieni tu. Guadagno per me facendo la sarta e la bambina è anche tua. Oppure no?»
«Spero bene. Non travisare il senso delle mie parole. Non ti rinfaccio nulla, soltanto mi fa rabbia quando penso quanti, pur stando bene, si erano messi al sicuro, tu invece pensavi che non si potesse vincere senza di te. Ed ora eccoti il tuo stato!»
«Ma è anche il tuo. Sia come sia, non sputerò nel mio piatto.»
Continuarono ancora a discutere ma alla bambina lo stato non interessava proprio. Voleva vedere la soffitta. Aspettava la padrona. Appena questa aprì la porta, vi si intrufolò e si nascose. Si sorprese nel vedere che era completamente vuota, poi però si ricordò che tempo fa era stata ripulita.
Tutte le cose trovate in soffitta, bisognava portarle alla discarica. Alla mamma fece pena una vecchia sveglia che non funzionava. La portò quindi dall’orologiaio. Dopo un po’ di tempo venne a far loro visita un uomo in borghese. La mamma dovette mostrargli la vecchia sveglia riparata.
«Perché si dovrebbe gettarla via, se può ancora funzionare?»
«Compagna, lei non può decidere da sola su cose di proprietà dello stato,» rispose l’uomo.
«Non sapevo che anche una vecchia sveglia gettata via, facesse parte del patrimonio statale! Se è così, la prenda pure! Ora funziona.»
«Compagna, non sia sfacciata! Badi bene a quello che dice!»
Alla fine lasciò loro la sveglia. In seguito si accorsero che era un’annunciatrice di disgrazie. Si guastava sempre prima che qualcuno morisse. Dovevano portarla continuamente dall’orologiaio.
Nella buia soffitta la bambina aveva paura dei morti. Nel frattempo la padrona aveva infatti chiuso a chiave la porta e la bimba, non potendo scendere, era passata attraverso l’abbaino sul tetto, sedendosi sul suo colmo. La casa era alta, molto più alta degli altri edifici costruiti fino ad allora. Davanti a questi c’erano molti bambini che avrebbero potuto avvisare sua mamma. La bambina sapeva che all’imbrunire sarebbe venuta comunque a cercarla.
Quando la mamma la scorse sul tetto, mentre le faceva cenni e si avvicinava al cornicione, si capì subito che era di origine contadina. Infatti qualsiasi altra donna avrebbe gridato, facendo un vero putiferio, sua mamma invece andò in silenzio dalla padrona di casa per avere la chiave. Aprì la porta e con calma le disse:
«Senti, abbiamo soltanto te. Sarei morta, se ti fosse successo qualcosa.»
E la bambina decise che in futuro sarebbe stata giudiziosa.
Le lezioni ebbero inizio prima che lei potesse esaminare attentamente i nuovi condomini. Tre bambine che vi abitavano, erano sue compagne di scuola. La maestra, osservandole, disse compiaciuta: «Quel terzetto è davvero speciale.»
La bambina le guardò a lungo e con attenzione per capirne il motivo. Probabilmente era a causa delle orecchie. Alcuni giorni dopo effettivamente la maestra controllando a tutte le alunne orecchi, collo e mani, disse ad una del terzetto:
«Come sono belle le tue piccole orecchie, belle e pulite!»
«La mammina me le pulisce con l’ovatta avvolta attorno ad uno stuzzicadenti e inumidita con la saliva.»
A me non le laverà mai così, pensa fra sé la bambina. L’ovatta bianca serve alla mamma per metterla nella benda che le sostiene il braccio quando le fa male, l’ovatta grigia, più grossolana, serve per l’imbottitura delle giacche delle clienti. A casa nostra non ci puliremo mai le orecchie con la saliva, pensa fra sé, mentre le strofina con acqua e sapone affinché siano le più pulite della sua classe.
La volta successiva viene a controllare le alunne un’infermiera. Annota innanzi tutto quante volte si lavano. La bambina racconta che a casa sua sono molto puliti e che ogni sabato tutto l’appartamento viene lavato con la spazzola. Aiuta anche il papà.
Questo non interessa all’infermiera. »Quante volte ti lavi?«
«Ogni giorno. Braccia, collo, viso e orecchie.»
«E il sederino?»
«Mai.»
«Non fai mai il bagno?»
«Solo in estate.»
«Non dirmi che non fai mai il bagno.?»
«La mamma mi lava tutta intera nella tinozza ogni sabato. Sotto mi lavo sempre da sola. Anche dalla zia ci lavavamo ogni sabato, però non mi hanno lavato la testa per due anni. Ora me la lava la mamma. Non so ancora come sarà in seguito.»
«Avresti potuto prendere i pidocchi.»
«A casa nostra non abbiamo mai avuto né pulci né pidocchi né cimici. Solo una volta papà ha portato un pulce dal cinema. L’hanno cercata tutta la notte nel letto. La mamma era arrabbiata col papà perché andava al cinema.»
L’infermiera divenne curiosa:
«Dove dormi? Non hai una stanza per te?»
«No, dormo ai piedi del letto.»
«Non hai nemmeno un letto per te?»
«Ce l’ho, ma ora vi dorme Bernarda.»
«Tua sorella?»
«No, non è della nostra famiglia. Dorme da noi perché ha paura. Suo padre morirà presto. Bernarda ha scrostato tutta la malta dal nostro muro e l’ha mangiata.»
L’infermiera va a cercare il medico. Egli sorride ed è molto gentile, anche se non le fa alcuna domanda. La bambina conosce la madre di lui. È maestra e avrebbe dovuto essere la sua insegnante di prima classe.
Si erano conosciute proprio alcuni giorni prima. La maestra era arrivata in classe durante la lezione ed aveva chiesto ai bambini chi di loro si sarebbe abbonato ai giornalini Ciciban e Čebelica. La bambina aveva alzato subito la mano perché a casa si erano già messi d’accordo su ciò. Disse il suo nome e la maestra si mostrò sorpresa:
«C’eri anche tu nel mio elenco. Avresti dovuto essere mia alunna in prima. Ti ho chiamata tante e tante volte, ma tu non c’eri mai.»
La bambina stupita rispose: «Si ricorda ancora di me?»
Aveva davvero fortuna con le compagne-maestre. La scuola era nuova e tutta in marmo. Se non le fosse dispiaciuto di perdere la lezione, avrebbe potuto benissimo rimanere in gabinetto per leggere. Avendo fatto incetta di molta carta igienica, la fecero andare dal direttore.
«Perché hai portato via tutta la carta?»
«Per fare aeroplani.»
«Lascia stare la carta. Se la porti via, gli altri non possono usarla dopo aver fatto i loro bisogni.»
«Nella mia vecchia scuola avevamo carta di giornali e i ragazzi non si lavavano le mani dopo i loro bisogni. Non c’era acqua.»
«Vedi dunque? Nella nostra scuola abbiamo la carta igienica e tutti si lavano le mani. Va bene?»
«Certo. Non farò più aerei. Probabilmente mi iscriverò al corso di recitazione.»
Non raccontarono niente di tutto ciò alla mamma. Essa diceva sempre che la sua bambina era brava e che stava sempre a casa per leggere e per studiare...
Al di là della porta di casa incominciava il mondo degli estranei. Era diverso anche il linguaggio. Succedeva spesso che i bambini dei vari condomini non la capissero. Quando qualcuno si dava delle arie, lei diceva che assomigliava ad un pavone al quale mancavano solo le penne della coda. - Non si è mai visto un uomo con la coda! E un dormiglione non guarda come un topo sbucato dalla farina! I ragazzi non avevano mai visto animali e riuscivano a malapena a distinguere l’erba dagli alberi e dai cespugli. Tutti andavano a passare le vacanze in campagna, ma nessuno partecipava ai lavori. Se avessero talvolta estirpato erbacce dai vigneti, avrebbero imparato a distinguere il miglio dalla fumaria. Il primo è facile da sradicare, l’altra invece estende le radici talmente in largo e in profondità che si riesce a toglierla solo con gran fatica. Non avevano la minima idea di quanto fosse fortunato colui che si imbatteva sul campo in una fila di piante di miglio, di gallinelle e di fumosterni. Quei ragazzi non sapevano che il noce davanti alla casa era gentile e non malescio. Inoltre non si riusciva proprio a convincerli a cogliere di nascosto frutti negli orti dei vicini.
Dal muro invisibile che si era creato fra la bambina e i ragazzi del vicinato, trassero origine due tipi di linguaggio: quello dei compagni di scuola che parlavano solo di cose morte, come se non esistessero fiori e animali, e la sua parlata scolastica, bella e stereotipata come le bambole nei negozi di Trieste.
In seguito tuttavia non ci furono più problemi. La bambina non bisticciò più con nessuno. Nessuna compagna-maestra ebbe a dire che aveva la lingua troppo lungua. Stando sdraiata, divorava i libri. Conosceva meglio le amanti dei re di Francia che non i compagni del cortile. E quando si annoiava portava a spasso suo padre e gli chiedeva: «Che fiore è questo? Conosci quell’erba?«
Lui non ne aveva la minima idea. Non aveva mai sentito i nomi che lei aveva imparato a scuola. Secondo lui nei prati crescevano solo fiori ed erbe, tutt’al più conosceva il cardo e l’ononide spinosa, non certo i ranuncoli e la salvia dei prati. Non aveva come lei esperienze di erbe medicinali quali la verbena, la malva e il biancospino, conosceva ciononostante assai bene gli alberi e i cespugli.
«Sai, anche durante l’inverno, quando gli alberi sono spogli, il vero contadino distingue non solo il melo dal pero, ma anche le loro differenti specie. Lo stesso vale per le viti. Ma tutto questo non è necessario che tu lo sappia. Tu non farai mai la contadina.»
Anche mio padre non era più un agricoltore. Cosa era diventato? Aveva anche lui vari mestieri, così come la bambina aveva vari linguaggi? Dal villaggio avevano traslocato in città, dove le parole erano assai poco espressive. La bambina sapeva quali non si potevano trasportare là e sostituire. Tali erano žegen e tovalič.
Dopo la morte dello zio la mamma ricordava a lungo con che faccia e che espressione del viso portava loro il tradizionale žegen, vale a dire il cesto con i tipici cibi pasquali benedetti, ricoperti dal tovalič, ossia da un’apposita tovaglietta.
Lo žegen arrivava di rado in città, dove ci si poteva esprimere in un modo che in campagna non era consentito. In paese infatti erano proibite le parole servo e serva. Tutti quelli che servivano dalla zia o che erano presso di lei in affidamento, erano il nostro Rajko, il nostro Peter o la nostra Mirja, lo stesso valeva per il padrone che era il nostro Ivan.
«Sei brutta, brutta e cattiva,» le aveva urlato lo zio sollevando alto il suo lungo bastone, dopo che Mirja l’aveva accusata di averla chiamata serva.
In città la bambina non riusciva mai a distinguere chi fosse signore e chi fosse compagno. Inoltre non c’era nessuno da poter chiamare zio. Le clienti della mamma erano signore, a scuola le insegnanti erano compagne. Era rimasta sorpresa quando aveva sentito l’uomo in borghese chiamare sua mamma compagna. C’erano parole che venivano usate solo in casa. Tali erano il petto, il culetto, il davanti e il didietro, il pistolino e il pisello-pisellone. Quest’ultimo era grande e talvolta, in autobus, addirittura si drizzava se qualche uomo era sbadato.
Le parole della campagna non attecchivano in città, quelle di città invece venivano portate in campagna durante le vacanze. Alle Brežine, allorché si radunò un gruppetto di ragazzine, la bambina si mise ad interrogarle come a scuola:
»Cosa suona meglio mamma o mammina?«
»Mammina è più bello, però tu non puoi chiamare tua mamma mammina.«
»È meglio papà, babbo o paparino?«
»Meglio di tutto è papà.«
In città le parole mutavano così velocemente come gli abitanti dei vari condomini e i loro mobili. Traslocavano ma non erano mai in casa propria. Avrebbero gettato via con indifferenza la mobilia se avessero avuto denaro sufficiente per comperarla nuova. Nella casa della zia invece ogni locale era riservato per qualcuno.
La donna chiuse l’armadio dello zio e successivamente aperse la camera della zia, del cugino e della mamma.
C’erano odori dappertutto e in cima alla scala vagavano i fantasmi. Si fermò e si sedette sulla cassapanca davanti alla camera della zia. Qui si trovava come a casa sua e benché non avrebbe potuto passarvi neanche una notte, la chiamava la nostra casa. Vi si trovava più a suo agio che in qualunque altro appartamento occupato fino ad allora.
Sentì avvicinarsi dei passi. Oggi è Peter il suo inquietante fantasma.
«Cos’altro vuole?»
*Koseski , nato a Koseze nel 1798 e morto a Trieste nel 1884, poeta, drammaturgo, traduttore e consigliere finanziario.