LA BALLATA DI CABO BRANCO / BALADA SA CABO BRANCA / BALADA S CABO BRANCO
LA BALLATA DI CABO BRANCO
Scelgo questo nome per te,
Yolanda,
perche e quello che una voce di miele
cantava alla radio
sul comodino dell’albergo
mentre godevamo insieme
nel falso tramonto
delle tende gialle
I crackers, gli anacardi,
le lattine di birra, di guarana,
e il telefono muto
assistevano divertiti
al riflesso sullo specchio
dei nostri giochi d’amore
La vera Yolanda, la donna cubana
che ha ispirato Pablo Milanes
in quella vecchia canzone
non doveva essere
tanto diversa da te,
Yolanda mia,
e di sicuro aveva il tuo profumo
Il vento che soffiava dal mare,
balsamo per un sole spietato,
portava via le parole
con le quali
tu volevi parlarmi
di linfe e di radici.
Parlarmi di tuo nonno
divorato da un giaguaro
mentre credeva di cacciarlo
nel sertão di Paraiba.
Parlarmi di tua madre
delicata
come il fiore del cajú,
morta per una puntura
di zanzara.
Di tuo padre immobile
su una sedia a rotelle:
quarant’anni fa era soldato
nella guerra piu sporca
dell’Araguaia.
Cacciatore di uomini,
porto al suo sergente
le teste tagliate dei guerriglieri
legate per i capelli
lungo un palo, come granchi
strappati dal fondo della palude.
Intrepido combattente
di una causa ignobile
trema ancora
al solo ricordo delle torture
inflitte,
e nello sforzo insano di descriverle
scuote anche la sedia.
Yolanda mia,
tu mi hai detto
che ti consideri
una donna senza storia.
»Sei il mio primo capitolo«,
mi dicevi.
Ti sbagli,
Yolanda.
Sei piena di storia,
e io invece
sono fuori
dal tuo libro:
sono elegante carta d’imballaggio
in toni pastello,
e porto il tuo libro dentro di me
altrove, lontano da qui,
come regalo per altri amici
che non conoscerai mai.
Yolanda,
farfalla inchiodata
sul mio letto,
sulla sabbia di Cabo Branco,
mi sorridi sempre,
mi guardi sempre,
con meraviglia:
sono il vecchio toro
che salto il recinto del mare
dentro il tuo podere,
e per sette giorni e sette notti
lo inondo di semi.
Ma ora devi restituirlo controvoglia
tirandolo per il muso
al nuovo proprietario.
In un sertão diverso
tra affreschi restaurati
e cappuccini,
anch’io, Yolanda,
soffro la stessa sorte di tuo nonno:
ogni giorno
sono sbranato da un giaguaro
di cui non oso nemmeno dire il nome.
Ho un’Araguaia
di sconfitte dentro il petto
e non so proprio
dove trasportano
la mia testa
dopo che l’hanno
staccata dal corpo.
Temo che metteranno
niente meno
di un oceano
tra i due ritagli di me.
Yolanda,
ti guardo da fuori di te:
Sei tu la mia storia,
la favola delle mie impossibilita,
e sono io invece
la farfalla schiacciata
sotto il fondo trasparente
di un vassoio:
souvenir dimenticato
nel bagagliaio di un aereo
da un amore vacanziero
che rientra.
Eternamente,
Yolanda.
MELANIA
Melania faceva teatro per bambini.
Nei giorni liberi,
che poi erano tanti,
faceva teatro sperimentale:
uno spettacolo
contro la guerra
e senza parole.
La domenica,
se non doveva presentarsi,
Melania dormiva.
Non c’era mai
una giornata sua
tutta per me.
Leggevo
mentre Melania dormiva
e dormivo
mentre Melania parlava
agli altri.
Solo il pane nero,
che lei preparava
e cuoceva nel nostro forno,
era condiviso tra noi
meta a meta:
la fetta che toccava a me
era sempre li sul tavolo
affiancata da un coltello,
burro e marmellata.
La sua invece era nascosta
dentro una borsa di panno
mangiucchiata negli intervalli
delle prove.
Un pane puro
come quello degli apostoli.
I bambini, urlando,
la chiamavano
bella befana!
e lei rispondeva,
con una voce in falsetto,
nasale e civetta
ma, bambini,
puo essere bella
la befana?
Siiiii! gridavano tutti,
e gia ridevano.
Siete sicuri,
bambini?
Siiiii!
Tornava Melania la sera
afona esausta.
Nei quarantacinque minuti
in cui aspettavamo
che il pane abbrustolisse
mi raccontava
la storia
di un amore interrotto
tanto tempo fa.
Col profumo del pane
mi voleva informare
che non abitava in un albergo
o in un camerino.
Ma a me non bastava.
Entrambi sapevamo benissimo
che quel luogo
non era altro per lei
che un posto per rifornirsi
di sonno.
Non di amore.
Non di amore.
L’amore era sempre altrove,
o da nessuna parte.
»Abbronzata come un’americana
Acconciata come un’americana
Ammirata come un’americana
Corteggiata come un’americana...«
E cosi via dicendo.
Era questo il testo
che doveva recitare
alla prossima installazione
della compagnia teatrale.
Lo recitava in pigiama
in cucina
mentre preparava il caffe d’orzo,
tutte le mattine
prima di uscire.
Melania non poteva capire
e io non potevo spiegarle
che la guerra e anche qua dentro,
in questo studio dormitorio,
dove una lesione ingiusta,
un colpo d’amore sottratto,
a ogni mattina
apre le porte a tutte le furie,
e riscuote in sangue
ciò che non è spirito.
LA BALLATA DI CABO BRANCO
Scelgo questo nome per te,
Yolanda,
perche e quello che una voce di miele
cantava alla radio
sul comodino dell’albergo
mentre godevamo insieme
nel falso tramonto
delle tende gialle
I crackers, gli anacardi,
le lattine di birra, di guarana,
e il telefono muto
assistevano divertiti
al riflesso sullo specchio
dei nostri giochi d’amore
La vera Yolanda, la donna cubana
che ha ispirato Pablo Milanes
in quella vecchia canzone
non doveva essere
tanto diversa da te,
Yolanda mia,
e di sicuro aveva il tuo profumo
Il vento che soffiava dal mare,
balsamo per un sole spietato,
portava via le parole
con le quali
tu volevi parlarmi
di linfe e di radici.
Parlarmi di tuo nonno
divorato da un giaguaro
mentre credeva di cacciarlo
nel sertão di Paraiba.
Parlarmi di tua madre
delicata
come il fiore del cajú,
morta per una puntura
di zanzara.
Di tuo padre immobile
su una sedia a rotelle:
quarant’anni fa era soldato
nella guerra piu sporca
dell’Araguaia.
Cacciatore di uomini,
porto al suo sergente
le teste tagliate dei guerriglieri
legate per i capelli
lungo un palo, come granchi
strappati dal fondo della palude.
Intrepido combattente
di una causa ignobile
trema ancora
al solo ricordo delle torture
inflitte,
e nello sforzo insano di descriverle
scuote anche la sedia.
Yolanda mia,
tu mi hai detto
che ti consideri
una donna senza storia.
»Sei il mio primo capitolo«,
mi dicevi.
Ti sbagli,
Yolanda.
Sei piena di storia,
e io invece
sono fuori
dal tuo libro:
sono elegante carta d’imballaggio
in toni pastello,
e porto il tuo libro dentro di me
altrove, lontano da qui,
come regalo per altri amici
che non conoscerai mai.
Yolanda,
farfalla inchiodata
sul mio letto,
sulla sabbia di Cabo Branco,
mi sorridi sempre,
mi guardi sempre,
con meraviglia:
sono il vecchio toro
che salto il recinto del mare
dentro il tuo podere,
e per sette giorni e sette notti
lo inondo di semi.
Ma ora devi restituirlo controvoglia
tirandolo per il muso
al nuovo proprietario.
In un sertão diverso
tra affreschi restaurati
e cappuccini,
anch’io, Yolanda,
soffro la stessa sorte di tuo nonno:
ogni giorno
sono sbranato da un giaguaro
di cui non oso nemmeno dire il nome.
Ho un’Araguaia
di sconfitte dentro il petto
e non so proprio
dove trasportano
la mia testa
dopo che l’hanno
staccata dal corpo.
Temo che metteranno
niente meno
di un oceano
tra i due ritagli di me.
Yolanda,
ti guardo da fuori di te:
Sei tu la mia storia,
la favola delle mie impossibilita,
e sono io invece
la farfalla schiacciata
sotto il fondo trasparente
di un vassoio:
souvenir dimenticato
nel bagagliaio di un aereo
da un amore vacanziero
che rientra.
Eternamente,
Yolanda.
MELANIA
Melania faceva teatro per bambini.
Nei giorni liberi,
che poi erano tanti,
faceva teatro sperimentale:
uno spettacolo
contro la guerra
e senza parole.
La domenica,
se non doveva presentarsi,
Melania dormiva.
Non c’era mai
una giornata sua
tutta per me.
Leggevo
mentre Melania dormiva
e dormivo
mentre Melania parlava
agli altri.
Solo il pane nero,
che lei preparava
e cuoceva nel nostro forno,
era condiviso tra noi
meta a meta:
la fetta che toccava a me
era sempre li sul tavolo
affiancata da un coltello,
burro e marmellata.
La sua invece era nascosta
dentro una borsa di panno
mangiucchiata negli intervalli
delle prove.
Un pane puro
come quello degli apostoli.
I bambini, urlando,
la chiamavano
bella befana!
e lei rispondeva,
con una voce in falsetto,
nasale e civetta
ma, bambini,
puo essere bella
la befana?
Siiiii! gridavano tutti,
e gia ridevano.
Siete sicuri,
bambini?
Siiiii!
Tornava Melania la sera
afona esausta.
Nei quarantacinque minuti
in cui aspettavamo
che il pane abbrustolisse
mi raccontava
la storia
di un amore interrotto
tanto tempo fa.
Col profumo del pane
mi voleva informare
che non abitava in un albergo
o in un camerino.
Ma a me non bastava.
Entrambi sapevamo benissimo
che quel luogo
non era altro per lei
che un posto per rifornirsi
di sonno.
Non di amore.
Non di amore.
L’amore era sempre altrove,
o da nessuna parte.
»Abbronzata come un’americana
Acconciata come un’americana
Ammirata come un’americana
Corteggiata come un’americana...«
E cosi via dicendo.
Era questo il testo
che doveva recitare
alla prossima installazione
della compagnia teatrale.
Lo recitava in pigiama
in cucina
mentre preparava il caffe d’orzo,
tutte le mattine
prima di uscire.
Melania non poteva capire
e io non potevo spiegarle
che la guerra e anche qua dentro,
in questo studio dormitorio,
dove una lesione ingiusta,
un colpo d’amore sottratto,
a ogni mattina
apre le porte a tutte le furie,
e riscuote in sangue
ciò che non è spirito.